Due mondi ritenuti lontanissimi ora appaiono in fase di avvicinamento sulla galassia del management. Fino a qualche anno addietro venivano considerati mondi lontanissimi, pressocchè inavvicinabili. Di Alberto Bordi
Il primo, troppo incentrato sulle stridenti logiche di mercato e sul raggiungimento del profitto; il secondo invece, proiettato alla mera erogazione di servizi ai cittadini ed al rispetto dell’ordinamento vigente, senza grande attenzione alla qualità della propria attività ed alla effettiva soddisfazione dei destinatari. La introduzione di alcuni cambi di rotta significativi, come il controllo di gestione, disciplinato dalla legge 286 del 1999, la più marcata responsabilizzazione della dirigenza (L. 15 e D.Lgs.150 del 2009) e la valutazione delle attività della P.A. secondo i parametri di efficacia, efficienza ed economicità, ha posto le premesse per un concreto avvicinamento alla auspicata cultura del risultato. In questa progressiva trasformazione del macrocosmo pubblico, il management ha assunto un ruolo di assoluto rilievo e già da alcuni anni nelle stanze dei palazzi ministeriali, negli uffici degli enti locali, nei dibattiti e nei convegni, si parla di leadership, di lavoro di squadra, del ruolo strategico del cambiamento, di problem solving, di benchmarking, di empowerment e di tutte quelle componenti, tecniche e concettuali, che costituiscono aspetti nevralgici della scienza manageriale.A dire il vero la Pubblica Amministrazione è stato spesso un luogo ideale per la sperimentazione di innovazioni organizzative; basterebbe citare gli esempi luminosi di Clinton-Gore negli Stati Uniti, ma anche di molte pubbliche amministrazioni europee.Con il maturare nella coscienza sociale del ruolo del cittadino come fruitore di servizi efficienti, con la “democratizzazione” dei rapporti tra cittadino e amministrazioni pubbliche è divenuta sempre più legittima la richiesta generalizzata di servizi tempestivi e di qualità, che rendano effettiva la partecipazione di tutti al benessere sociale ed economico.L’utilità delle esperienze delle grandi aziende private non è mai stata messa in dubbio, ma ora si pensa ad assimilare tali best practices; del resto, è evidente a tutti come molte situazioni e contingenze siano di fatto assimilabili, così come numerosi elementi di fondo, quali la complessità dei prodotti e dei servizi, le stesse dimensioni organizzative, la necessità/opportunità di standardizzare e di industrializzare i prodotti e i servizi, l’esigenza strategica di diffusione delle conoscenze per la personalizzazione e l’incremento della qualità finale, etc. Tutti questi possono essere visti come meccanismi in grado di accelerare i processi di cambiamento delle Pubbliche Amministrazioni e la fertilizzazione incrociata tra i migliori contesti pubblici e quelli delle grandi aziende private. Del resto, si può con soddisfazione costatare come uno dei luoghi eccellenti per la riflessione e la sperimentazione negli ambiti della cultura e della prassi manageriale sia divenuto proprio il grande territorio della P.A.: oggi molti esperti del management si tengono aggiornati e crescono professionalmente confrontandosi con i bacini di sviluppo organizzativo delle Pubbliche Amministrazioni, dalle macro e micro-iniziative centrali fino a quelle territoriali degli enti locali. È uno scambio sempre più ricco e gratificante per tutti i soggetti coinvolti.
Guardando al passato, è da notare come dalla riforma Bassanini del 1997 in poi la pubblica amministrazione italiana abbia abbandonato il vigente sistema di controllo sugli atti per approdare progressivamente al controllo di gestione, quale procedura di verifica impostata essenzialmente sul parametro del risultato, e sul punto pare fuor di dubbio che la strada intrapresa dal legislatore nazionale è sicuramente quella giusta per condurre i nostri apparati amministrativi a quegli standard di efficacia, efficienza ed economicità da sempre auspicati da parte dei cittadini ed ora ritenuti unanimemente necessari.Difficoltà nel metabolizzare questa nuova filosofia gestionale ovviamente non mancano,ma questa è una via che è necessario continuare a percorrere, sicuramente senza possibilità di “marce indietro”: è di tutta evidenza che bisognerà continuare a investire sulla conoscenza e sulla capacità di operare secondo le logiche del controllo di gestione, perché questo è l’unico strumento professionalmente valido per operare nell’ottica della concreta realizzazione degli obiettivi.
Bisognerà far tesoro delle migliori esperienze condotte, anche in ambiti transnazionali, da grandi aziende private per condurre e governare al meglio tali processi di cambiamento; soprattutto si dovrà fare attenzione a non creare una casta di specialisti, chiusa in logiche tecnico-professionali avulse dallo spirito di servizio all’organizzazione e ai cittadini: il controllo di gestione deve essere strumento operativo posseduto da tutti i manager e deve far parte del sapere professionale di tutte le persone di una sana amministrazione.
Gli apparati burocratici ed i dipendenti pubblici sono da sempre additati come esempio di scarsa produttività, con evidente ricaduta sui servizi erogati da ministeri, regioni ed enti locali. Ci chiediamo: siamo di fronte ad un malato cronico con i sintomi dell’accidia e dello scetticismo da travet? Quando si parla in questi termini “disfattisti” della P. A., si compie un’operazione di estrema semplificazione e si svela un’intima convinzione reazionaria: le persone vogliono lavorare, vogliono mettere passione in quello che fanno, per trarne un senso per la propria vita; sembra utile ritornare a questo proposito alle sagge riflessioni di McGregor, su teoria x e teoria y, anche se nate tanti anni fa a proposito di organizzazioni private, quelle schematizzazioni sono perfettamente appropriate per le organizzazioni pubbliche di oggi. Conviene, dunque, partire da un pregiudizio positivo sulle persone, e somministrare la complessa, articolata ricetta valida per qualunque organizzazione: forti iniezioni di leadership, a tutti i livelli dell’organizzazione, diffusione di un senso di responsabilità, di un senso di proprietà rispetto ai processi di lavoro, appartenenza e orgoglio, visione etica; infatti le persone che comprendono di più il loro lavoro e la situazione della loro organizzazione risultano poi meglio motivate e più orientate ad assumersi rischi e impegni, utili allo sviluppo dell’organizzazione e di se stesse. Questo è il terreno specifico degli interventi psicosociali e proprio qui si annulla completamente la differenza tra mondo pubblico e mondo privato: siamo di fronte a persone e gruppi nelle grandi organizzazioni, le dinamiche sono quelle proprie dell’individuo e dei gruppi all’interno di contesti organizzativi. Ancor di più, proprio qui la Pubblica Amministrazione si può avvalere delle esperienze maturate nelle grandi aziende private e l’avvio di questo ricco percorso è testimoniato dalle esperienze sempre più diffuse da qualche anno. Una riflessione a parte merita il cambiamento. Nonostante il suo oggettivo valore strategico, il cambiamento incontra molto di frequente delle forti resistenze, quasi aprioristiche, da parte del personale pubblico, per cui sono necessarie leve capaci di avvicinarsi alla novità con approccio positivo, meglio ancora se partecipativo in modo convinto.
È proprio della natura dei comportamenti umani nelle grandi organizzazioni resistere ai cambiamenti: il cambiamento è, insieme, un’esigenza vitale e la fonte di un grande paradosso, è più sano spesso, e “naturale”, resistere ai cambiamenti. L’unica ricetta proponibile è quella che conduce al fare emergere la necessità impellente del cambiamento e la mancanza di alternative ad esso.
La sua drammatizzazione sarà tanto più facile e credibile quanto più le Pubbliche Amministrazioni saranno e si comporteranno come delle “case di vetro”, perfettamente trasparenti rispetto ad un pubblico esigente e competente, che sappia chiedere i comportamenti professionalmente corretti e adeguati ai bisogni dell’economia e della società. Saranno i clienti maturi delle P. A. i migliori alleati del cambiamento, che l’aiuteranno a porsi degli standard oggettivi e mai autoreferenziali. E come non parlare di organizzazione, parola chiave ed elemento indefettibile per valutare la validità funzionale e la modernità di un apparato e per conseguire gli obiettivi presenti nella mission e nella vision di un qualsiasi ente.
Quali componenti sono effettivamente mutuabili dal contesto privatistico per portare quella buona organizzazione degli uffici che già il nostro costituente indicava come parametro ineludibile per la efficienza della Pubblica Amministrazione? Va detto che la pubblica amministrazione italiana ha già imboccato la via più efficace al “fare organizzazione oggi”, quella che si è diffusa in tutti gli ambiti dell’economia privata che sono caratterizzati da realtà efficienti e di successo. Essere organizzati vuol dire oggi seguire le logiche dei macroprocessi strategici e dei processi di lavoro che costituiscono il nucleo portante delle organizzazioni, i cosiddetti core process. Si tratta di una logica organizzativa pragmatica, che si nutre di una visione strategica e del senso dei valori dell’organizzazione stessa. Per di più, talune organizzazioni, private e pubbliche, nazionali ed europee, ritengono che tale nuovo modo di fare organizzazione si realizzi attraverso modalità partecipate e fortemente progettuali, intrinsecamente e metodologicamente sperimentali: stiamo assistendo ad una progettazione dell’organizzazione che si nutre non più tanto di competenze ingegneristico/alchimistiche quanto di abilità di dialogo e di indagine sociale, alimentate dalle stesse qualità che alimentano la leadership post-burocratica. Sarà interessante osservare queste sperimentazioni che implicano nella stessa direzione realtà pubbliche e private.
Outsourcing, questa parola magica avrebbe dovuto significare l’acquisizione di immensi spazi di efficienza privata da mettere a disposizione della capacità competitiva: spesso, l’esperienza si è risolta in un miraggio. Molto spesso si è trattato di metodologie di gestione strategico/amministrativa di un’organizzazione, e non di governo strategico/culturale: una realtà complessa va governata tenendo sempre ben presenti i suoi fini di fondo e il suo sistema di valori; grazie a questa duplice considerazione, potranno enuclearsi le fondamentali competenze distintive dell’organizzazione. Rispetto a queste ultime, nessun parossismo efficientista potrà lasciarsi andare a forme di esternalizzazione, pena l’inaridimento dell’organizzazione stessa.
Un sano processo di esternalizzazione potrà riguardare tutte le aree di un’organizzazione che risultino marginali rispetto ai fini essenziali, e dovrà essere combinato allo sviluppo delle competenze professionali delle risorse interne. Tale sviluppo del personale interno sarà funzionale a quello delle competenze distintive dell’organizzazione. Purtroppo, riguardo a questo tema, non bisogna farsi dei miti non realistici: la tanto decantata efficienza gestionale del mondo privato si è spesso coniugata, in casi ben tristemente noti, in visioni e pratiche miopi e stupidamente ossessive, che, c’è da augurarsi, la P. A. italiana non debba mai percorrere.
La comunicazione è da sempre parte integrante, spesso prioritaria, della attività di un’azienda, mentre sul fronte istituzionale, nonostante esperienze di eccellenza il cammino non si presenta spedito ed una bella legge come la 150 del 2000 langue in un limbo che sembra essere infinito. Che tipo di comunicazione hanno fino ad oggi prodotto le amministrazioni pubbliche del nostro Paese? Ad onor del vero sono annoverabili casi di eccellenza ma la linea dominante è quella di una comunicazione non organizzata, non efficace, definita “naif” da qualche studioso della materia. Siamo piuttosto lontani dagli standard del Nord Europa e del mondo anglosassone: in quei Paesi, purtroppo per noi, ci si avvantaggia di un senso civico e dello Stato profondamente e sobriamente più radicato e diffuso; ciò non toglie che non si possa trarre ispirazione da quelle esperienze, perché più stimolanti e di taglio aggiornato all’era digitale.