(In Rivista Libertà Civili Novembre-Dicembre 2010)
I dati del VII Rapporto del Cnel ridimensionano la valenza di una proporzione che, anche a causa del tam tam mediatico, è spesso alla ribalta nel dibattito politico e giornalistico Spesso è sufficiente un episodio di criminalità di una certa rilevanza con protagonista un immigrato
ed ecco che l’equazione “più immigrati, più criminalità” torna prepotentemente alla ribalta nel nostro Paese, spesso a dispetto della logica e dei numeri che, restando all’equazione di partenza, su un tema così complesso dal punto di vista sociale, contano più delle reazioni emotive. Nella realtà cittadina romana una reazione di tal genere si è registrata in occasione della barbara uccisione della signora Reggiani in una terribile serata di tre anni fa; nella circostanza a scatenare un atteggiamento xenofobo nei confronti della comunità dei romeni nella Capitale è stata l’efferatezza dell’atto criminale posto in essere, reso ancora più inquietante dal connotato quasi primordiale dell’autore del gesto omicida.
Questo tipo di risposta non è peraltro nuovo e ha accompagnato in altri tempi e in altri ambiti i rapporti tra comunità autoctone e collettività di immigrati; senza andare lontano basterebbe ricordare la presenza dei nostri meridionali nel Nord Italia negli anni Sessanta-Settanta, allorché gli episodi di criminalità urbana venivano stigmatizzati e accomunati come frutto di una sorta di gene criminale insito nella gente siciliana o calabrese spostatasi a Torino o a Milano in cerca di lavoro.
Ovviamente la fisiologica reazione a crimini particolarmente gravi non può essere né impedita né sottovalutata, anche perché la massima attenzione va riservata da parte delle autorità competenti e dell’intera opinione pubblica agli episodi malavitosi perpetrati nel medesimo ambito locale o sociale, oppure riconducibili a una determinata etnia presente in uno specifico territorio.
Quello che preoccupa non è la reazione emotiva e psicologica di larga parte dell’opinione pubblica a crimini efferati, che è legittima e naturale, ma la semplicistica estensione delle connotazioni criminogene di un individuo o di un gruppo di soggetti autori del reato a una intera progenie, con un atteggiamento di tipo manicheo che spesso rapporta apoditticamente il bene e il male allo status di italiano o di “straniero”, in mancanza di dati e di riscontri oggettivi su larga scala.
A supportare il processo di etichettamento che sottende l’equazione “più immigrati più criminalità” concorre la convinzione che la povertà, il bisogno, la disperazione, per di più trapiantati in un ambito lontano dalle proprie radici, generino inevitabilmente comportamenti criminosi; tuttavia, tale proiezione comportamentale non può avere valore assoluto, in quanto è verosimile che tutti i migranti che lasciano le proprie terre, i propri affetti, e i loro (pochi) averi per approdare a una soglia di vita migliore, perseguano prioritariamente l’obiettivo di ottenere un lavoro piuttosto che una predefinita strategia criminogena. Questa, più realisticamente, è ipotizzabile come estrema e residuale, e forse realizzabile più semplicemente nel proprio territorio d’origine.
In secondo luogo, la matrice della disperazione dello straniero, mutatis mutandis , non può dirsi lontana, nei concreti comportamenti, dal comportamento delittuoso estremo del cittadino italiano che si trovi senza lavoro, senza prospettive e senza aiuti esterni di sorta.
Questo rapido passaggio mostra come muoversi nel campo delle motivazioni, delle valutazioni generalizzate, delle reazioni emotive riferite a episodi, anche se gravi, non possa rappresentare la giusta chiave di lettura di un’equazione complessa e instabile che mette insieme due macrocosmi diversi e variegati come il mondo dell’immigrazione e il pianeta della criminalità. Molto più corretta e affidabile, in tale contesto, l’opzione della fenomenologia reale fondata su dati attendibili, su riscontri tangibili e analizzabili, come quelli di recente elaborati e riportati nel VII Rapporto del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro - Cnel (si veda anche libertàcivili n.5/2010) che dedica una sezione proprio a tale problematica, facendo riferimento a una componente oggettiva quale il numero delle denunce penali riferite agli stranieri in Italia. Questo parametro non si presta a voli pindarici e rimane agganciato a un indicatore tangibile e quantificabile come la denuncia, pur prendendo atto che i cittadini stranieri hanno maggiori possibilità di essere denunciati per il fatto di essere più individuabili, meno dotati di mezzi di difesa.
Una lettura prima facie del Rapporto conduce a tre valutazioni, per taluni profili, inaspettate: la prima evidenzia che, nel periodo 2001-2008 l’aumento delle denunce a carico degli immigrati è risultato inferiore rispetto all’aumento del numero degli immigrati; la seconda è che tale aumento di denunce è molto più basso se si tiene conto che l’addebito dei reati riguarda anche gli immigrati irregolari e altre categorie di stranieri non residenti. La terza si riferisce agli immigrati arrivati ex novo nel periodo 2005-2008, i quali risultano imputati di addebiti penali in misura inferiore rispetto alla popolazione, italiani e stranieri, già stabilita in Italia.
La prima conseguenza deducibile dai dati considerati è che il senso di peggioramento della sicurezza debba essere ricondotto ad altri fattori più che all’incremento della popolazione straniera. La ricerca del Cnel, che si è fatta carico di un’analisi mirata su alcune specifiche collettività, da tempo “nell’occhio del ciclone” della realtà italiana, come quella marocchina e quella rumena, mette in luce come quest’ultima stia conoscendo un andamento più virtuoso di quanto veicolato dal dibattito pubblico e dagli organi di stampa. Potrebbe essere in atto un processo non dissimile da quello che ha riguardato la comunità polacca trasmigrata in Italia nel decennio passato, additata per lungo tempo come composta da ubriachi, rissosi, “lavavetri” nella migliore delle ipotesi, e ora considerata una comunità “virtuosa” con vocazione alla piena integrazione.
Acquisiti questi dati, certamente più rassicuranti rispetto a un immaginario con contorni inquietanti, definito da qualche studioso come “il crime deal italiano”, c’è da chiedersi come si ponga il nostro Paese rispetto agli altri Stati membri dell’Unione Europea alla luce della equazione sociologica di partenza.
Ebbene anche sul fronte del benchmarking non mancano le sorprese: se si prendono in esame i dati forniti da Eurostat nel periodo 1995-2006 con particolare riguardo all’anno 2006, le denunce aventi per destinatari stranieri sul nostro territorio si attestano sul 4,6 % rispetto alla popolazione residente, pari a 1 ogni 22 residenti, (contro il rapporto 1 a 16 che costituisce la media europea), dato che ci colloca in una posizione intermedia nel panorama continentale “unito”. Al primo posto di questa particolare classifica del rapporto denunce/residenti si posiziona, anche qui con una certa sorpresa, la Svezia (13,3%), davanti a Regno Unito (9, 8%) e Belgio (9, 5%), dati che devono necessariamente tener conto dei diversi ordinamenti penali di riferimento e delle
diverse culture esistenti presso quelle popolazioni sull’utilizzo dello strumento della denuncia
Sempre dai dati Eurostat elaborati dal Dossier statistico Caritas/Migrantes e assunti nella ricerca del Cnel emerge come Roma, in quanto a tasso di omicidi, con 1,28 casi su 100mila abitanti, risulti tra le cinque capitali europee più sicure. Il dato da tenere in maggior considerazione si riferisce comunque al primo quinquennio degli anni 2000, un periodo che segna un incremento delle denunce proporzionalmente minore rispetto all’aumento degli stranieri, a definitivo suggello delle tesi anticatastrofiste sulle presenze straniere criminogene in Italia.
Se questo è il tratto evidente sull’equazione di partenza, non si possono tralasciare alcune considerazioni che precisano ulteriormente il dato considerato: in primis che esso non tiene conto della riconducibilità di più reati allo stesso soggetto denunciato, al fatto che siamo di fronte all’elemento “denuncia” e non all’esito “condanna”, e che nel novero degli stranieri in Italia non sono ricompresi i tanti stranieri “in sofferenza anagrafica”, ossia in attesa di essere registrati come residenti, fattori questi che dilatano ulteriormente il rapporto direttamente proporzionale tra stranieri immigrati e criminalità derivata.
Un terzo livello di analisi riguarda poi il tipo di “criminalità” considerata nella casistica qui richiamata, nella quale gran parte delle denunce ricade nell’area dei reati comuni o soft crimes , tra i quali lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione, lo strozzinaggio, gli atti molesti, i furti, gli scippi e le aggressioni, pur non mancando atti di maggior gravità. Altro fattore dal quale è fondamentale non prescindere riguarda la mole di denunce relative alla violazione della legislazione sugli stranieri (stato di irregolarità, fuga, false generalità, documenti alterati, resistenza all’arresto, oltraggio a pubblico ufficiale, occupazione di locali adibiti a luoghi per dormire etc.) che in taluni anni si attesta su un sesto del numero complessivo.
I dati statistici, come noto, sono fondamentali per conoscere il passato di un fenomeno, la tendenza nel presente dello stesso e le proiezioni future a breve o medio termine. Le risultanze sin qui analizzate alla luce dell’equazione “più immigrazione, più criminalità” ci hanno condotto a un percorso diacronico che deve necessariamente fornire elementi riguardanti le prospettive per il nostro vivere quotidiano, le quali, in costanza del quadro planetario di riferimento, non possono fare a meno di considerare il fattore generazionale e quello dell’età degli stranieri giunti nel territorio italiano.
Più immigrati, più criminalità: un’equazione che non torna Innanzitutto è evidente che i reati denunciati in Italia sono attualmente ascrivibili in gran parte alle prime generazioni di immigrati, composte prevalentemente da uomini e donne di età compresa tra i 30 e i 40 anni e, quindi, più giovani degli italiani e statisticamente più propensi alla devianza. In presenza di una popolazione ospitante più “giovane”, come non risulta essere quella italiana, l’incidenza criminogena degli ospitati sarebbe ancora minore. Dai 40 anni in poi, accanto alla naturale maturazione degli individui, essendo già avviati i processi di inserimento ed essendo più marcato il desiderio di integrazione e di portare a successo il progetto di vita faticosamente messo in cantiere, il tasso di delinquenza è inevitabilmente destinato a scendere, ponendo le basi per una progressiva integrazione nel nostro tessuto socio-economico, in modo non dissimile da quanto avvenuto per gli italiani giunti in America nel periodo postbellico, prima respinti e oltraggiati, poi integrati e apprezzati.
C’è infine una sorta di fattore remoto nel “binomio immigrazione-criminalità” di cui ci stiamo occupando, apparentemente poco rilevante, ma che in realtà incide fortemente sull’approccio ideologico al tema, sul quale incombe un pericoloso pregiudizio di base impostato sul manicheismo bene-male, italiani-stranieri o, ancor su più ampia scala, “noi-gli altri”. Si allude al fatto che una buona parte degli atti criminosi sono posti in essere dagli immigrati a carico degli stranieri stessi, spesso a danno della medesima componente etnica e che da questi proviene una buona parte delle denunce, formulate con fatica, con coraggio e con rischio di ritorsione. Lo straniero vittima di un crimine che denuncia per difendere la propria esistenza, il proprio progetto di vita e il proprio lavoro o i propri risparmi si va a collocare, forse inconsciamente, a fianco dei cittadini italiani che osteggiano il crimine, la sopraffazione e il non rispetto dei valori umani fondamentali.
Ecco quindi profilarsi una nuova e più corretta posizione manichea, frutto inevitabile dei tempi che viviamo, in cui gli elementi a confronto non sono più italiano versus straniero, ma onesto contro disonesto, rispettoso del prossimo e delle leggi contro criminale, indipendentemente dalle differenze di lingua, nazionalità e religione, come recita il nostro articolo 3 della Costituzione e, in modo ancor più esteso e rigoroso, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 che all’articolo 1 afferma: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
L'articolo integrato dai dati statistici di riferimento. Pagina 115 Libertà Civili Nov.Dic. 2010