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Home Arte cultura e tempo libero La romanità in tavola, dal garum alla pajata

La romanità in tavola, dal garum alla pajata

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Non solo le pietanze tipiche della tradizione laziale-capitolina, ma anche richiami storici estemporanei, a partire dai pranzi con Lucullo e Trimalcione (Estratto dal De gustibus di Alberto Alfieri Bordi)

 

Minestra di broccoli e arzilla. A Roma l’ Arzilla pietrosa è il pesce noto nel resto d’Italia come Razza o Raja. Occorre il broccolo romanesco, quello verde e a punta diviso a cimette. Cuocere l'arzilla in acqua e sale, con aggiunta di odori (cipolla, carota, sedano), per circa due ore. In un tegame a parte preparare un soffritto con olio, aglio, alici e prezzemolo, quindi aggiungervi il brodo di cottura dell'arzilla filtrato, i broccoli, una punta di cucchiaio di conserva di pomodoro e pepe. Lasciare insaporire per una decina di minuti, quindi portare a bollore il brodo e cuocere gli spaghetti ridotti a pezzi corti.

Amatriciana o Matriciana? In verità non è un piatto nato a Roma, ma ha le sue origini nella cittadina di Amatrice, che in tempi passati era in Abruzzo, poi con la creazione della provincia di Rieti, voluta da Mussolini, divenne parte del Lazio. Pare fosse il pasto dei pastori, per la sua semplicità e rapidità di preparazione. Originariamente era senza il pomodoro e si chiamava "Gricia", poi con la scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo che importó in Europa il pomodoro, furono aggiunti i pomodori e divenne "Amatriciana". La vera amatriciana è senza aglio e senza cipolla.

Misticanza. È un’insalata che risale al tempo in cui i frati cappuccini in cambio della questua lasciavano un po’ di una squisita mescolanza di varie erbe raccolte nei campi e negli orti come ruchetta, caccialepre, cicorietta, crispigno, lattughella ed altro ancora. Si condiscono con gli ingredienti che vengono menzionati in un proverbio che dice testuale: “pe' condì bene l’insalata ce vonno quattro persone: un sapiente pe' mettece er sale, un avaro l’aceto, uno spregone l’ojo e un matto che la mischi e la smucini”.

Quinto quarto. Oltre ai quattro quarti del bovino ottenuti dalla macellazione, esiste un quinto quarto costituito dai tagli meno nobili, un tempo utilizzati nella cucina povera. Nel quinto quarto rientrano la corata: l’insieme di polmoni, cuore, milza e fegato di animali diversi. La coratella è costituita dalle interiora del solo abbacchio. Le animelle, che i libri di anatomia chiamerebbero ghiandole endocrine, il torcilo, ossia il pancreas, e poi i rognoni, cioè i reni. Al quinto quarto appartiene anche la coda. E per finire la pajata, l’intestino del vitello da latte contenente il chimo.

Le lumache di S.Giovanni. Secondo i parametri scientifici le lumache di terra con guscio andrebbero chiamate chiocciole ed appartengono al genere Helix. Le preferite sono quelle di vigna, sono dette anche di S.Giovanni, visto che venivano preparate dagli osti romani nella notte di S.Giovanni, fra il 23 e il 24 giugno. Dopo averle fatte ben bene spurgare, si tolgono dal guscio facendole lessare; si mettono poi in un tegame dove si è preparato un sugo di pomodoro con un battuto di aglio, acciughe e peperoncino, cotto con un mazzetto di menta, e poi fatte cuocere in questo sugo per almeno un'ora.

Il locale più antico di Roma. Così c’è scritto all’ingresso de La Campana, in Vicolo della Campana 18, vicino a via di Ripetta, e sicuramente di questa trattoria già si parlava nel Medio Evo. L’ambiente rustico, tipico di un’altra epoca è vivacizzato dalle voci degli avventori amplificate dalla conformazione rettangolare delle due sale comunicanti. La cucina è buona, leggera, saporita, Nel menù tutti i piatti tradizionali della cucina romana. Originali le linguine agli occhi di canna, minuscoli gamberetti. Immancabile la pasta e broccoli con brodo d'arzilla. Prezzo medio € 35.

Le pietanze delle feste comandate. Le feste comandate per i Romani sono sempre una occasione per una bella mangiata. Perfino la sera del 24 dicembre, vigilia da rispettare, non si mangia carne ma si abbonda con pesce e fritti vegetariani. L’ultimo dell’anno scendono in campo lenticchie, che portano soldi, con zampone o cotechino. Del capitone, femmina dell’anguilla dalla testa (caput) grossa, le nuove generazioni hanno perduto traccia. A Pasqua è d’obbligo l’abbacchio al forno, a scottadito o brodettato, in tutti i modi, in tutti,  in tutti i laghi. A ferragosto non può mancare il pollo con i peperoni.

Il garum dell’antica Roma. E’ la salsa liquida di interiora di pesce che gli antichi Romani aggiungevano come condimento a molti piatti. Il vocabolo è di etimologia incerta; questa specie di pasta di acciughe veniva utilizzata spesso per insaporire i cibi. Ne esistevano tre varietà: il flos floris di prima qualità; il liquamen di seconda qualità e l’alleo, meno costosa e più piccante. Difficile adattare questo preparato alla cucina contemporanea anche se qualcuno lo ricollega alla salamoia delle acciughe sotto sale in uso presso alcune zone della costiera amalfitana.

Pagare alla romana. L’espressione si usa di solito quando al ristorante arriva il momento di pagare il conto. Generalmente è intesa come il metodo più sbrigativo per pagare il conto, in quanto si prescinde dall’effettivo consumo di ciascun commensale, procedendo invece ad una divisione della spesa in parti uguali. In realtà la “romana” di cui si parla deriva dal contrappeso della bilancia stadera, detto “romano” per la tipica forma a melanzana, che in arabo è chiamata “rumann”. Il significato effettivo dell’espressione equivale a dire che “ognuno paghi per la propria parte, per il proprio consumato”.

Sulle tracce di Apicio. Essere un Apicio è divenuto, nel comune parlare, sinonimo di ghiottoneria. Ma chi era questo personaggio della Roma imperiale? La storia ci riporta di un Apicio crapulone senza freni che dilapidò in banchetti un immenso patrimonio. Altri cronisti indicano in Apicio il cuoco dell’imperatore Tiberio. Una parte della letteratura cita invece Apicio come autore del “De re coquinaria” primo trattato di gastronomia della storia romana, un testo di notevole ampiezza ma in molti punti disordinato. Altri lo abbinano ad un suicidio quando gli furono preclusi i piaceri della tavola.

A cena con Trimalcione. L’episodio centrale del Satyricon di Petronio Arbitro ci fa vivere una cena con il rozzo Trimalcione.:“sul vassoio un asinello di bronzo con una bisaccia a due tasche, per olive chiare e scure..Piccoli sostegni sorreggevano ghiri spalmati di miele e polvere di papavero. Le salsicce friggevano su una griglia d’argento con prugne siriane e chicchi di melograno. Nel vassoio tondo erano disposti in circolo i 12 segni zodiacali, sui quali il maestro di cucina aveva sistemato il cibo. A fianco pollame e ventri di scrofa ed una lepre, provvista di ali, in modo da sembrare un Pegaso.

Funerale “ar dente”. Aldo Fabrizi ci ha lasciato ricette in versi davvero sfiziose. “Er mortorio”: Appresso ar mio num vojo visi affritti, e pe’ fa’ ride pure a‘ st’occasione, farò un mortorio con consumazione…in modo che chi venga n’approfitti. Pe’ incenso, vojo odore de soffritti, ‘gni cannela dev’esse un cannellone, li nastri –sfoje all’ovo e le corone fatte de fiori de cocuzza fritti.Li cuscini timballi de lasagne, da offrì ar momento de la sepportura a tutti quelli che “sapranno” piagne. E su la tomba mia, tutta la gente ce leggerà ‘sta sola dicitura: Tolto da questo mondo troppo al dente”.

Capitone (dal latino caput, testa) è la denominazione che A Roma viene data alla femmina dell'Anguilla. Se i maschi raggiungono i 60 cm. di dimensione, le femmine arrivano anche al metro e mezzo. Le anguille vengono di solito messe in vendita vive, in apposite vasche d'acqua dolce. Il capitone è destinato tipicamente al consumo natalizio, preparato in umido, o anche fritto. Gli avanzi sono di solito riciclati il giorno successivo dopo averli marinati in aceto aromatizzato con origano, alloro, aglio e pepe. Pietanza molto grassa, anguilla e capitone sono più digeribili se cucinati alla brace.

Pinzimonio o cazzimperio. Il pinzimonio è costituito da verdure crude (carote, sedano, cetrioli, peperoni, ravanelli, finocchi, pomodori verdi) tagliate a bastoncini, a strisce o a pezzetti. Il termine Pinzimonio deriva probabilmente dal verbo “pinzare” (pungere, essere piccante), con esplicito riferimento all'uso di mangiare delle verdure crude intinte in un’emulsione di olio d’oliva e sale pepe e aceto, all'inizio o alla fine del pasto. Il termine cazzimperio, invece, è prettamente romano e viene citato sia dal Belli che da Trilussa.

Le Coppiette. In origine le coppiette erano prodotte con carne di cavallo; oggi si utilizza carne di maiale. La polpa viene tagliata a strisce, insaporite con sale, pepe, peperoncino, spezie e fatte essiccare. Erano preparate dai contadini che le appendevano nei camini ad asciugare. Anticamente venivano consumate nelle osterie e vendute da venditori ambulanti detti coppiettari. Le coppiette “de ‘na vorta” si possono trovare ad Ariccia, patria della porchetta e delle fraschette, le osterie con l’uso di esporre sulle insegne un ramoscello o frasca.

Cucina Kasher o Kosher. La cucina ebraica occupa un posto di rilievo nella cucina romana, anche perché la più antica comunità ebraica è proprio quella di Roma, dove gli ebrei si stabilirono nel II sec. a.C.. I prodotti Kosher, in seguito a lunghi processi di controllo, possono essere consumati dagli esponenti delle Comunità Ebraiche. Kashèr significa valido, adatto, buono. Oltre a garantire i requisiti fondamentali necessari ai principi religiosi dell’ebraismo, tali prodotti offrono un livello di controllo qualitativo superiore.

Pajata. Piatto tipico della cucina romana, corrisponde all’intestino tenue del vitello e contiene ancora il chimo, il prodotto della digestione. Si abbina di norma con i rigatoni. Preparazione: sciacquare la pajata, tagliarla a pezzi di 20 cm. legando le estremità in modo da formare degli anelli, si aggiunge ad un soffritto unendo i pelati e cuocendo coperto per 2 ore. Il piatto nasce dai lavoranti del Mattatoio di Testaccio, gli scortichini, che, assieme ad una misera paga, ricevevano gli scarti delle carni macellate, come le interiora, che cucinavano per sfamare le famiglie.

Il meglio in tavola. Sono le frattaglie la base dei famosi "rigatoni alla pajata". Con la coda dei bovini si cucina la "coda alla vaccinara". Tra i secondi primeggiano i "saltimbocca alla romana", la "trippa" e il pollo con pomodori e peperoni, oltre all’abbacchio al forno, accompagnato dalle "puntarelle con acciughe", con la variante "allo scottadito", cotto in pezzi con tanto di osso, che si mangiano con le mani. L’abbacchio, simbolo della cucina laziale, è un agnello da latte che ha poco più di un mese di vita e quindi la carne è tenera e delicatissima. Amatissimi i pomodori ripieni di riso.

Filetti di baccalà. Telline. I filetti del merluzzo bianco conservato sotto sale sono un peccato di gola che vale la pena di commettere. Ogni filetto, deve essere prima immerso nella pastella acqua e farina, lievitata per qualche ora e poi fritto nell’olio di semi bollente e servito asciutto. I Romani amano cozze, vongole ed altri frutti di mare ma sono tellinari nell’animo. La domenica sera si conclude spesso con una spaghettata con gli appetitosi bivalvi che vivono sotto la sabbia del tirreno, comprati, pescati con rastrelli o con le mani. Serve olio, aglio, prezzemolo, pelati, sale e pepe.

Pasta alla gricia. Veloce e gustosa, fa parte, insieme alla pasta Cacio e Pepe, alla Amatriciana e alla Carbonara, della quaterna classica dei primi piatti romani. Il termine viene da Griciano, piccolo paese vicino ad Amatrice oppure dall’appellativo “gricio” dato ai panettieri o ancora dal cantone dei Grigioni in Svizzera dal quale arrivava il guanciale. Preparazione: aggiungere all’olio in padella del guanciale e farlo rosolare a fuoco basso. Grattata di pecorino, pepe ed po’ di acqua di cottura. Scolata la pasta al dente, procedere con la “strascicata” finale nella padella stessa.

I fritti. A Roma si frigge praticamente tutto ed in ogni periodo dell’anno, l’importante è che la frittura sia calda, asciutta e saporita. La pastella di acqua e farina è destinata a ricoprire i cervelli, le animelle (ghiandole di abbacchio o vitello), gli schienali (midollo spinale di bovini tagliato a pezzetti), oppure carciofi, fegato, costolette d’abbacchio, polpette di carne, filetti di zucchine, patate, mele, ricotta, fiori di zucca, cavolfiori e perfino le rane. Il pandorato è fatto di fette di pane duro (è peccato buttarlo), messe a mollo nelle uova sbattute e latte e poi fritte.

La Pinsa Romana. Nell'antica Roma la pinsa era una schiacciata di forma ovale paragonabile all'attuale focaccia. Essa prende il nome dal latino pinsere (schiacciare, pestare) ed era lievitata naturalmente per 48 ore, a tutto vantaggio della digeribilità. Oggi molti locali la ripropongono ma la prova della lievitazione e dell’impasto senza additivi ce l’abbiamo solo in fase di digestione, che non deve presentare alcun senso di gonfiore e di pesantezza. Dicono che la Pratolina in via degli Scipioni 248 ha la miglior pinsa di Roma, soprattutto se accompagnata dalla birra Menabrea.

Carciofi alla giudìa. Nelle tavole romane i carciofi sono preparati in vari modi: i più famosi sono i carciofi alla giudìa, diffusi nella cucina del Ghetto: sono carciofi puliti e schiacciati in modo che sembrino un fiore e fritti in abbondante olio. Differenti sono i carciofi alla romana, cotti con il gambo in su con ripieno di mentuccia fresca, aglio, sale, pepe e olio o tagliati a spicchi, oppure fritti misti con coratella e animelle. Il carciofo aumenta la secrezione biliare e migliora la digestione. Regola anche il metabolismo dei grassi ed abbassa il colesterolo nel sangue. E’ sconsigliato per chi soffre di colite.

 

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