Ritenute prive di fondamento le valutazioni formulate da una lavoratrice andata in pensione per ragioni diverse dal raggiungimento dei limiti massimi di età o di servizio; restano però impregiudicate le questioni sul pagamento delle indennità nel termine di 12 mesi, e sulle relative rateizzazioni, per i pensionati che hanno raggiunto i limiti massimi di età o di servizio.
Va ricordato preliminarmente che, diversamente da quanto avviene nel settore privato, le norme vigenti prevedono che i lavoratori del settore pubblico, una volta in pensione, debbano aspettare almeno 15 mesi (12 mesi più 90 giorni) per il TFR/TFS, in caso di pensione di vecchiaia, e almeno 27 mesi (24 mesi più 90 giorni), in caso di pensione anticipata. Se l’importo supera i 50mila euro, queste tempistiche riguardano solo la prima tranche del TFR/TFS, la seconda viene versata dopo ulteriori 12 mesi, fino a 100mila euro. Se l’importo è superiore ai 100mila euro, la terza rata viene versata dopo altri 12 mesi.
Dopo la sentenza 159 del 2019, affinchè la problematica del differimento e della rateizzazione del TFS sia valutata a 360 gradi, sarà necessario che un altro giudice (a quo) sollevi identica questione di legittimità costituzionale, ma con riferimento al caso di un dipendente pubblico che sia andato in pensione per limiti di età o di servizio.
Resta l'amara considerazione che il salvadanaio riempito nel corso di tanti anni di lavoro da ciascun dipendente pubblico non è nella disponibilità di quest'ultimo, ma viene gestito dallo Stato o dall'INPS secondo proprie (e variabili) esigenze di bilancio...e poco importa che moltissimi dipendenti dello Stato, tutti vincitori di un pubblico concorso, all'atto del collocamento a riposo, possano contare soltanto sugli emolumenti da pensione, spesso davvero modesti, al limite dell'indigenza!!
Cosa ha sentenziato la Corte Costituzionale:
Con ordinanza del 12 aprile 2018 (reg. ord. n. 136 del 2018), il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.
Il rimettente assumeva che le disposizioni censurate, nel prevedere un pagamento differito e rateale dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti ai dipendenti pubblici, si ponessero in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). I lavoratori del settore pubblico sarebbero assoggettati a un regime deteriore rispetto ai lavoratori del settore privato, i quali ottengono senza ritardo l’erogazione del trattamento di fine rapporto. La denunciata sperequazione non troverebbe una giustificazione ragionevole nella specialità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
La «corresponsione dilazionata e rateale» dei trattamenti di fine servizio, disposta «in via generale, permanente e definitiva», sarebbe, per altro verso, lesiva del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.).
La «particolare gravità della situazione economica e finanziaria del momento» potrebbe giustificare esclusivamente «un intervento temporaneo e mirato sui trattamenti di fine rapporto», applicabile «all’intero comparto pubblico», secondo le coordinate di «un disegno organico improntato a una dimensione programmatica», che si proietta nell’arco pluriennale delle politiche di bilancio. Nondimeno, tale intervento non potrebbe risolversi in una «irragionevole protrazione, in via permanente, della dilazione e scaglionamento» dell’erogazione dei trattamenti di fine servizio.
Un assetto così congegnato, che procrastina il pagamento dei trattamenti di fine servizio, contrasterebbe con il principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e ne comprometterebbe l’adeguatezza, in violazione dell’art. 36 Cost. Tali trattamenti, qualificabili come retribuzione differita, sarebbero corrisposti alla cessazione del rapporto di lavoro allo scopo di soddisfare le «principali necessità di vita (per esempio, acquisto di una casa, spese per il matrimonio di un figlio, necessità di cure mediche […])», legate anche all’esigenza di onorare altri impegni finanziari assunti.
Nel giudizio è intervenuta ad adiuvandum, con atto depositato il 30 ottobre 2018, la Federazione Confsal-Unsa. La federazione, che non riveste la qualità di parte del giudizio principale, ha fondato la legittimazione all’intervento sulla titolarità di un interesse diretto, attuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio a quo.
L’intervento è inammissibile.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche con riguardo alle richieste di intervento di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria (fra le molte, ordinanza dibattimentale allegata alla sentenza n. 248 del 2018), la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).
A tale disciplina è possibile derogare ‒ senza contraddire il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità ‒ soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (fra le molte, sentenza n. 153 del 2018, punto 3. del Considerato in diritto). In tale prospettiva, un interesse qualificato sussiste allorché si configuri una «posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall’esito del giudizio incidentale» (ordinanza dibattimentale allegata alla sentenza n. 194 del 2018).
La Federazione Confsal-Unsa non vanta un interesse qualificato, ma soltanto «un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti» (sentenza n. 77 del 2018, punto 4. del Considerato in diritto, con riguardo all’intervento della Confederazione generale italiana del lavoro), che non vale a rendere ammissibile l’intervento spiegato.
Allo scopo di definire il tema del decidere rimesso all’esame di questa Corte, occorre delineare i tratti salienti della disciplina riguardante la liquidazione dei trattamenti di fine servizio e le particolarità della fattispecie concreta che ha dato origine al dubbio di costituzionalità.
L’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997 fissa i termini per la liquidazione dei «trattamenti di fine servizio, comunque denominati», spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, oggi definite dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e al personale in regime di diritto pubblico di cui all’art. 3, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Alla liquidazione l’ente erogatore provvede «decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro». All’effettiva corresponsione si deve dar corso «entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi».
Al differimento della liquidazione dei trattamenti di fine servizio si affiancano le disposizioni in tema di pagamento rateale, introdotte dall’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 con l’obiettivo di concorrere «al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita».
L’originaria scansione dei pagamenti, modulata in una rata annuale per le indennità di fine servizio fino a 90.000,00 euro, in due rate annuali per le indennità oltre i 90.000,00 e fino ai 150.000,00 e in tre rate annuali per le indennità pari o superiori a 150.000,00 euro, sempre al lordo delle trattenute fiscali, è stata modificata dall’art. 1, comma 484, lettera a), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)».
Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, «come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196», l’indennità di buonuscita, l’indennità premio di servizio, il trattamento di fine rapporto e «ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego» sono oggi riconosciuti «in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro» (lettera a), «in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro» (lettera b) e «in tre importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro» (lettera c).
Sulle questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Roma non incidono le novità introdotte dall’art. 23 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, che prevedono la facoltà di richiedere il finanziamento di una somma, pari all’importo massimo di 45.000,00 euro, dell’indennità di fine servizio maturata.
Tale facoltà, accordata, tra l’altro, al ricorrere dei presupposti definiti dalla legge, ai «lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», non altera i termini delle questioni proposte, che si incentrano sui tempi di corresponsione delle indennità di fine servizio, tempi che lo ius superveniens non interviene a modificare.
Il rimettente espone di dovere decidere sul ricorso proposto da una dipendente del Ministero della giustizia «in pensione per anzianità dal 1-9-2016», che percepisce il trattamento di fine servizio «in maniera rateale e dilazionata, con pagamento dell’ultima rata al settembre 2020».
Nell’atto di costituzione, la parte ricorrente nel giudizio principale ha specificato che operano le modalità di corresponsione regolate dall’art. 12, comma 7, lettera c), del d.l. n. 78 del 2010, «mediante tre importi annuali successivi».
Sui dati di fatto menzionati dal rimettente con riguardo al collocamento in pensione per anzianità il 1° settembre 2016 e al termine quadriennale per conseguire il saldo del trattamento di fine servizio, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e il Presidente del Consiglio dei ministri non hanno articolato rilievi critici di sorta.
Dalle indicazioni, peraltro non contestate, che offre il giudice a quo si può desumere in maniera inequivocabile che la parte ricorrente percepisce il trattamento di fine servizio «in tre importi annuali». Alla liquidazione del primo importo annuale l’ente erogatore non può che provvedere solo dopo che siano «decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro» (art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997). La ricorrente, difatti, è «in pensione per anzianità» e non beneficia dell’applicazione del più favorevole termine annuale, che il legislatore sancisce per la liquidazione dei trattamenti di fine servizio nelle diverse ipotesi di «cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione».
La necessità – riferita dal rimettente – di attendere quattro anni per il «pagamento» del trattamento di fine servizio discende dunque dall’applicazione congiunta delle disposizioni dell’art. 12, comma 7, lettera c), del d.l. n. 78 del 2010 e dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, che stabiliscono, rispettivamente, il pagamento rateale in tre importi annuali e la liquidazione del primo importo annuale non prima del decorso di ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Alla luce di tali precisazioni, devono essere conseguentemente dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale che vertono sull’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, nella parte in cui individua un termine di dodici mesi per la liquidazione dei trattamenti di fine servizio nelle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di età o di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio. Tale previsione non è applicabile al giudizio principale, rientrante invece nella autonoma disciplina che, per la liquidazione, contempla il termine di ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Quanto all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, pur provvisto di portata generale e caratterizzato da previsioni tra loro concatenate di soglie crescenti, non può che essere scrutinato dalla peculiare angolazione che rileva nel giudizio principale.
Devono essere dunque dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, anche le questioni di legittimità costituzionale della normativa sul pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito della cessazione dall’impiego, nella parte in cui si applica alle ipotesi – estranee alla cognizione del rimettente – di cessazione del rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di età o di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.
Lo scrutinio di costituzionalità è dunque circoscritto alle disposizioni dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, riguardanti il termine di liquidazione di ventiquattro mesi, e alla speculare disciplina del pagamento rateale dei trattamenti di fine servizio (art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010), che si applica in tale specifica ipotesi.
Le questioni, così delimitate, non sono fondate, in relazione a tutti i profili che il rimettente ha prospettato.
Il giudice a quo denuncia, in primo luogo, un’arbitraria disparità di trattamento tra il settore pubblico e il settore privato, quanto ai tempi di liquidazione delle indennità di fine rapporto.
La censura non è fondata.
Per costante giurisprudenza di questa Corte – ricordata dallo stesso giudice rimettente – il lavoro pubblico e il lavoro privato «non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni» (sentenza n. 178 del 2015, punto 9.2. del Considerato in diritto).
Il lavoro pubblico rappresenta un aggregato rilevante della spesa di parte corrente, che, proprio per questo, incide sul generale equilibrio tra entrate e spese del bilancio statale (art. 81 Cost.). L’esigenza di esercitare un prudente controllo sulla spesa, connaturata all’intera disciplina del rapporto di lavoro pubblico ed estranea all’àmbito del lavoro privato, preclude il raffronto che il rimettente prospetta.
Con riferimento alla liquidazione delle somme dovute, lo stesso giudice a quo, nell’accogliere nei limiti indicati le eccezioni di illegittimità costituzionale formulate dalla parte ricorrente, non propone un’integrale equiparazione delle indennità di fine rapporto vigenti nei settori pubblico e privato, ma prefigura il ripristino del termine di novanta giorni, stabilito per l’effettiva erogazione dell’indennità di buonuscita dall’art. 26, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), così come modificato dall’art. 7 della legge 20 marzo 1980, n. 75 (Proroga del termine previsto dall’articolo 1 della legge 6 dicembre 1979, n. 610, in materia di trattamento economico del personale civile e militare dello Stato in servizio ed in quiescenza; norme in materia di computo della tredicesima mensilità e di riliquidazione dell’indennità di buonuscita e norme di interpretazione e di attuazione dell’articolo 6 della legge 29 aprile 1976, n. 177, sul trasferimento degli assegni vitalizi al Fondo sociale e riapertura dei termini per la opzione).
Anche il rimettente, dunque, nell’evocare la pregressa disciplina sui termini di erogazione delle indennità di buonuscita, mostra di riconoscere la peculiarità del regime applicabile in tale materia al settore pubblico, in considerazione della preminente esigenza di ordinata e trasparente programmazione nell’impiego delle limitate risorse disponibili. Tanto basta per rendere ragione delle differenze censurate e per escludere la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della dedotta disparità di trattamento.
Il secondo nucleo di censure, formulate con riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., riguarda l’intrinseca irragionevolezza dei termini relativi alla liquidazione, che pregiudicherebbero il diritto del dipendente pubblico di percepire una retribuzione differita proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato.
In considerazione della finalità unitaria che ispira le disposizioni denunciate e del legame inscindibile che intercorre tra le censure di irragionevolezza e quelle di lesione della proporzionalità e dell’adeguatezza della retribuzione differita, esse devono essere esaminate congiuntamente. Tali censure non sono fondate.
Le indennità di fine rapporto, pur nella differente configurazione che hanno assunto nel volgere degli anni, si atteggiano come «una categoria unitaria connotata da identità di natura e funzione e dalla generale applicazione a qualunque tipo di rapporto di lavoro subordinato e a qualunque ipotesi di cessazione del medesimo» (sentenza n. 243 del 1993, punto 5. del Considerato in diritto).
L’evoluzione normativa, «stimolata dalla giurisprudenza costituzionale» (sentenza n. 243 del 1993, punto 4. del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’àmbito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 del codice civile (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999, recante «Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti»).
Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva.
Nel settore pubblico, le indennità in esame presentano una natura retributiva, avvalorata dalla correlazione della misura delle prestazioni con la durata del servizio e con la retribuzione di carattere continuativo percepita in costanza di rapporto. Esse rappresentano il frutto dell’attività lavorativa prestata (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto) e costituiscono parte integrante del patrimonio del beneficiario, che spetta ai superstiti «nel caso di decesso del lavoratore in servizio» (sentenza n. 243 del 1997, punto 2.3. del Considerato in diritto).
Le indennità sono corrisposte al momento della cessazione dal servizio allo scopo precipuo di «agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione» (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto). In questo si coglie la funzione previdenziale che coesiste con la natura retributiva e rappresenta l’autentica ragion d’essere dell’erogazione delle indennità dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Il carattere di retribuzione differita, comune a tali indennità, le attira nella sfera dell’art. 36 Cost., che prescrive, per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l’idoneità a garantire, in ogni caso, un’esistenza libera e dignitosa.
La garanzia costituzionale della giusta retribuzione, proprio perché trascende la logica meramente sinallagmatica insita nei contratti a prestazioni corrispettive e investe gli stessi valori fondamentali dell’esistenza umana, si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione. È tale tempestività che assicura «al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa attraverso il soddisfacimento delle quotidiane esigenze di vita» (sentenza n. 82 del 2003, punto 2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 459 del 2000, punto 7. del Considerato in diritto).
Anche per le indennità di fine rapporto, legate a una particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana, la garanzia costituzionale opera in tutta la pregnanza delle sue implicazioni. La funzione previdenziale di tali trattamenti, che sopperiscono alle molteplici necessità del lavoratore e della comunità di vita cui appartiene, rischia di essere vanificata da una liquidazione in tempi irragionevolmente protratti.
Alla stregua dei princìpi richiamati, occorre dunque verificare se la disciplina dei tempi di pagamento apprestata dal legislatore sia conforme ai canoni di proporzionalità e di adeguatezza di cui all’art. 36 Cost. e attui un equilibrato componimento dei contrapposti interessi in gioco.
Il sindacato devoluto a questa Corte postula la valutazione della globalità del trattamento retributivo (sentenza n. 213 del 2018, punto 8.1. del Considerato in diritto) e della complessiva disciplina in cui esso si colloca (sentenza n. 366 del 2006, punto 3. del Considerato in diritto) e non può non considerare la pluralità di variabili che vengono in rilievo nell’apprezzamento discrezionale del legislatore, vincolato a «tenere conto anche delle esigenze della finanza pubblica» (sentenza n. 91 del 2004, punto 4. del Considerato in diritto) e di quelle di razionale programmazione nell’impiego di risorse limitate.
La disciplina del pagamento rateale e differito delle indennità di fine rapporto, nei limiti oggi devoluti all’esame di questa Corte, riguarda i lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza.
Per costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 104 del 2018, punto 6.1. del Considerato in diritto), ben può il legislatore «disincentivare i pensionamenti anticipati (fra le molte, sentenza n. 416 del 1999, punto 4.1. del Considerato in diritto) e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita, come questa Corte ha avuto occasione di affermare in riferimento alla valutazione dei particolari servizi prestati da dipendenti civili e militari dello Stato (sentenza n. 39 del 2018, punto 4.4. del Considerato in diritto) e in tema di coefficiente di trasformazione della contribuzione versata, più elevato per chi presti servizio più a lungo (sentenza n. 23 del 2017, punto 4.1. del Considerato in diritto)».
Le scelte discrezionali adottate in tale àmbito dal legislatore, anche in un’ottica di salvaguardia della sostenibilità del sistema previdenziale, non possono tuttavia sacrificare in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost.
Nel caso di specie, i limiti posti dai princìpi di ragionevolezza e di proporzione non sono stati valicati.
Il termine di ventiquattro mesi per l’erogazione dei trattamenti di fine servizio, nelle ipotesi diverse dal raggiungimento dei limiti di età o di servizio, è stato introdotto già dall’art. 1, comma 22, lettera a), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148.
L’intervento del legislatore travalica l’obiettivo contingente di conseguire immediati e cospicui risparmi, puntualmente stimati dalla relazione tecnica allegata al disegno di legge di conversione del d.l. n. 138 del 2011, e si raccorda, in una prospettiva di più ampio respiro, a una consolidata linea direttrice della legislazione, che si ripromette di scoraggiare le cessazioni del rapporto di lavoro in un momento antecedente al raggiungimento dei limiti di età o di servizio. La misura restrittiva in esame si colloca dunque in una congiuntura di grave emergenza economica e finanziaria, che registra un numero cospicuo di pensionamenti in un momento anteriore al raggiungimento dei limiti massimi di età o di servizio.
Nel caso all’attenzione della Corte il differimento dell’erogazione dei trattamenti di fine servizio fa riscontro a una cessazione del rapporto di lavoro che può intervenire anche quando non sia ancora maturato il diritto alla pensione. Il trattamento più rigoroso si correla alla particolarità di un rapporto di lavoro che, per le ragioni più disparate, peraltro in prevalenza riconducibili a una scelta volontaria dell’interessato, cessa anche con apprezzabile anticipo rispetto al raggiungimento dei limiti di età o di servizio.
La disciplina è graduata in funzione di tale elemento distintivo sul presupposto che, proprio con il raggiungimento dei limiti indicati, si manifestino in maniera più pressante i bisogni che le indennità di fine servizio mirano a soddisfare e che impongono tempi di erogazione più spediti.
L’assetto delineato dal legislatore non solo è fondato su un presupposto non arbitrario, ma è anche temperato da talune deroghe per situazioni meritevoli di particolare tutela, come la «cessazione dal servizio per inabilità derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente», che impone all’amministrazione competente, entro quindici giorni dalla cessazione dal servizio, di trasmettere la documentazione competente all’ente previdenziale, obbligato a corrispondere il trattamento «nei tre mesi successivi alla ricezione della documentazione» (art. 3, comma 5, del d.l. n. 79 del 1997).
Il regime di pagamento differito, analizzato nel peculiare contesto di riferimento, nelle finalità e nell’insieme delle previsioni che caratterizzano la relativa disciplina, non risulta dunque complessivamente sperequato.
Le medesime considerazioni possono essere svolte per il pagamento rateale delle indennità di fine servizio, disciplinato dall’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 e poi irrigidito dall’art. 1, comma 484, lettera a), della legge n. 147 del 2013.
In questo caso l’ulteriore sacrificio imposto ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni discende pur sempre da una cessazione anticipata dal servizio e nelle particolarità di tale fattispecie, appena passate in rassegna, rinviene la sua ragione giustificatrice.
Il meccanismo introdotto dal legislatore prevede, inoltre, una graduale progressione delle dilazioni, via via più ampie con l’incremento delle indennità, ed è pertanto calibrato in modo da favorire i beneficiari dei trattamenti più modesti e da individuare, anche per questa via, un punto di equilibrio non irragionevole.
La disciplina censurata, esaminata nel suo complesso e riferita alla cessazione anticipata del rapporto di lavoro, contempera, allo stato, in modo non irragionevole i diversi interessi di rilievo costituzionale, con particolare attenzione a situazioni meritevoli di essere più intensamente protette.
Restano impregiudicate, in questa sede, le questioni di legittimità costituzionale della normativa che dispone il pagamento differito e rateale delle indennità di fine rapporto anche nelle ipotesi di raggiungimento dei limiti di età e di servizio o di collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.
Nonostante l’estraneità di questo tema rispetto all’odierno scrutinio, questa Corte non può esimersi dal segnalare al Parlamento l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito parlamentare.
La disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine rapporto, conquistate «attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa» (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana.
Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l’intervento spiegato dalla Federazione Confsal-Unsa;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, l’ente erogatore provveda «nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro», sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui prevede il pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito di cessazione dall’impiego «nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione», sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito nella legge n. 140 del 1997, nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, l’ente erogatore provveda «decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro», e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito nella legge n. 122 del 2010, nella parte in cui prevede il pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito di cessazione dall’impiego nelle ipotesi diverse dalla «cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione», sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.