Buoni pasto, mansioni superiori, dequalificazione, moleste sessuali, noia lavorativa, questi i temi caldi della giurisprudenza sul lavoro pubblico ma anche la qualificazione di frasi come “buono a nulla”, “lei non sa chi sono io” “raccomandato”
“Lei non sa chi sono io”
Attenzione a proferire il classico “lei non sa chi sono io”: per la Corte di Cassazione tale espressione e vietata
Un avvocato del foro di Caltagirone ha avuto la pessima idea di rivolgersi ad una impiegata in servizio presso i locali uffici dell’Albo degli Avvocati con l’espressione “lei non sa chi sono io!”. A costringerlo a tale formula anatemica, oggettivamente pure obsoleta, sarebbe stato l’atteggiamento della impiegata che, intenta a fare fotocopie nell'ufficio, avrebbe proseguito imperterrita nel suo lavoro non prestando alcuna attenzione all’ingresso del legale.
L'avvocato, piccato dell’atteggiamento irrispettoso, avrebbe proferito la formula non tanto magica, a guisa di ammonimento. La donna sarebbe stata indebitamente privata pure del “ titolo di dottoressa'', si legge nella sentenza della Corte di Cassazione – Sezioni Unite civili - n. 138 del 2005. La signora, alla quale erano state rivolte espressioni ''sconvenienti'' (qui e' diventato un mercato) ha denunciato i fatti, cosi' il consiglio dell'ordine degli avvocati presso il tribunale di Caltagirone ha emesso un provvedimento disciplinare nei confronti dell'avvocato “lei non sa chi sono io”. Contro la sanzione disciplinare dell'avvertimento, il legale ha presentato ricorso in Cassazione ma le Sezioni Unite civili hanno respinto il ricorso confermando la legittimita' del provvedimento che, a detta dei magistrati romani di piazza Cavour, e' esente da ''vizi di motivazione'' e non e' privo di ''congruenza logica''. Ergo, conviene non far sapere in giro “chi sono io”.
“Buoni pasto”
Al personale della Polizia di Stato non spettano. Cosi il TAR Piemonte con la sentenza 77 del 2007
Il TAR del Piemonte – Torino – Sezione I - con la sentenza 23 gennaio 2007, n 77 ha affermato che non spetta al personale di Polizia di Stato il diritto ai buoni pasto in presenza del servizio di mensa. Il Collegio ha motivato le proprie conclusioni facendo riferimento al vigente quadro normativo, dettato dall’articolo 61 del DPR 16 marzo 1999, n. 254, recante il “Recepimento dell'accordo sindacale per le Forze di polizia ad ordinamento civile e del provvedimento di concertazione delle Forze di polizia ad ordinamento militare relativi al quadriennio normativo 1998-2001 ed al biennio economico 1998-1999” secondo cui il buono pasto spetta nelle condizioni in cui “presso l'organismo interessato o presso altro ufficio o reparto della Polizia di Stato della stessa sede sia impossibile assicurare, direttamente o mediante appalti, il funzionamento della mensa obbligatoria di servizio”, e in quello in cui il “personale impiegato in servizi di istituto, specificamente tenuto a permanere sul luogo di servizio o che non puo allontanarsene per il tempo necessario per la consumazione del pasto presso il proprio domicilio”. Chiaro il contenuto normativo in base al quale quando la mensa e funzionante, anche se non e concretamente usufruibile, non spetta il buono pasto in quanto in tale ipotesi la legge non impone la corresponsione dello stesso.
“Buono a nulla”
Corte di Cassazione: si può dare del “buono a nulla” sul posto di lavoro
Si puo' dare del 'buono a nulla' sul posto di lavoro. A dare il via libera ad un epiteto sempre in uso negli ambienti lavorativi (ed anche in ambiti familiari a dire il vero) e’ la Corte di Cassazione che evidenzia come l'accusa di ''inettitudine'' al lavoro non sia ingiuriosa se usata per sottolineare un errore commesso dal dipendente. Anzi, l'espressione usata per censurare ''l'errore e la trasgressione realizzata'', dice la Suprema Corte, ''non sconfina nell'insulto'', ma puo' servire da sprone ad una ''maggiore efficienza del servizio''. L'occasione per affermare questo principio, alla Quinta sezione penale della suprema Corte, e' stata offerta dal caso di una dipendente dell'ufficio postale di Venosa: Filomena C., 54 anni, alla quale, per avere sostituito un collega in un altro sportello abbandonando il suo compito, il direttore dell'ufficio aveva rivolto ''accuse di negligenza ed imperizia con un comportamento ingiurioso. Questo - si legge nella sentenza 9361/06 - sarebbe consistito nello scaraventare a terra con violenza alcuni pesanti pacchi postali e nel gridare al suo indirizzo le frasi: “vado a mettere proprio te”, a significare l'inettitudine della dipendente e “non sei all'altezza di svolgere il tuo lavoro, non andare ad aiutare gli altri''. Il fatto, accaduto nel giugno del '99, e' finito davanti al giudice nell'aprile del 2004 quando il Tribunale di Melfi condannava per ingiuria il direttore dell'ufficio postale, Alfredo C., a 60 euro di multa e a risarcire con mille euro la dipendente alla quale aveva dato della 'buona a nulla'.
“Lavoro noioso”
Il lavoro umile e noioso può provocare tachicardia e danni al sistema cardiovascolare: questo il risultato di uno studio realizzato da alcuni scienziati inglesi
Secondo gli scienziati inglesi che scrivono sulla rivista 'Circulation' Un lavoro umile e noioso puo' provocare una costante tachicardia, che a sua volta puo' portare a malattie di cuore.
L'equipe dell'University College London Medical School e giunta alla conclusione che individui che svolgono lavori di ''basso grado'', con scarso controllo sui compiti giornalieri, oppure che occupano basse posizioni sociali hanno in media 3,2 battiti cardiaci in piu' al minuto rispetto a uomini in posizioni di prestigio.
La scoperta non e certo insignificante e costituisce un dato che può spiegare perche' una persona pagata poco o dotata di scarsa istruzione e' piu' esposta al rischio di malattie cardiovascolari, un trend che ha trovato riscontri evidenti negli ultimi 30 anni.
Sembrerebbe quindi che il nostro sistema cardiovascolare non sopporti la frustrazione, la noia e la mortificazione a cui sono soggetti coloro che sfortunatamente non svolgono attivita prestigiose oppure non siano culturalmente modesti. Di contro, i potenti delle aziende, degli uffici, delle organizzazioni in genere, che peraltro riescono a potenziare sempre di piu la propria cultura, avranno una salute di ferro ed un cuore pimpante.
A questo aggiungiamoci che la scienza medica e piuttosto concorde nell'affermare che il sorriso fa salute, in particolar modo nell'ambito lavorativo. A questo punto quel povero disgraziato che non ha potuto studiare (spesso perche proveniente da famiglia parimenti disgraziata),che svolge un lavoro umile, privo di soddisfazioni e con questi presupposti non ha sicuramente ne voglia ne la forza di sorridere, e magari fa pure il pendolare (con piu alto rischio di stress), risulta destinato in modo pressocche inevitabile a morte certa e prematura.
E qualcuno dei pezzi grossi, di gran cultura,senza tachicardia, su tale evento ci fara una bella risata sopra. La domanda sorge allora spontanea: per creare un sistema di vita lavorativa piu giusto e dignitoso, anche per i profili salutistici esposti, non si potrebbe rendere "meno umile e noioso" e percio meno tachicardico, il lavoro delle qualifiche piu basse....se ne avvantaggerebbe sicuramente anche il servizio sanitario pubblico!!!!
“Baci in ufficio”
Per la Cassazione anche un bacio sul collo, in mancanza di consenso, costituisce “molestia sessuale”: respinto il ricorso di un funzionario pubblico di Genova
Anche un bacio sul collo o il solo tentativo di bacio sulle labbra, qualora non richiesti, sono da considerare molestie sessuali punibili penalmente. In tal senso una sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di un funzionario di polizia condannato per violenza sessuale per aver costretto una collega di grado inferiore a subire baci sul collo e un tentativo di bacio sulla bocca. I giudici supremi sostengono che queste azioni rientrino nella sfera degli "atti sessuali" se connotati da costrizione con violenza o abuso d'autorità.
Il poliziotto, gia' condannato nel 2002 dalla Corte di Appello di Genova a un anno e due mesi di reclusione per violenza sessuale, aveva proposto il ricorso per insussistenza del reato spiegando che le sue erano state semplici "avances" e che non incidevano sulla sfera sessuale della donna.
Con la sentenza n. 19808 depositata in data 9 giugno 2006 nella cancelleria di piazza Cavour, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando la condanna. I giudici del “palazzaccio” hanno pertanto confermato le considerazioni contenute nella sentenza n. 37395 del 2004, nella quale erano fissati i limiti della condotta tipica del reato di "violenza sessuale", configurabile in "qualsiasi condotta che possa ledere il bene giuridico di liberta' sessuale, non solo quindi la congiunzione carnale o gli atti di libidine". In quell'occasione fu confermata la condanna per un magistrato accusato di aver dato una pacca sul sedere proprio a una dirigente degli uffici della Cassazione e ad altre impiegate.
“Raccomandato”
Attenzione a dare del "raccomandato" a qualcuno: per la Cassazione e reato di ingiuria
La "raccomandazione" fa ancora parlare di se, indipendentemente dal fatto che sia o meno una prassi ancora utilizzata, ma tacciare qualcuno di essere "raccomandato" puo' essere rischioso e puo' far scattare una multa, come e' successo ad un tabaccaio pugliese che cosi ha etichettato un vigile urbano intervenuto a sedare un diverbio. Infatti l'epiteto indica, a detta dei giudici, in maniera inequivoca chi ha ricevuto una spintarella per entrare in una azienda o in un ministero: colui che lo utilizzera', potra' incappare in una multa per il reato di ingiuria. L'avvertimento arriva dalla Corte di Cassazione che ha reso defintiva la condanna a 680 euro di multa (comprensiva di 500 euro per i danni morali) inflitta al commerciante di Peschici, 'reo' di aver dato del 'raccomandato' ad un vigile. L'espressione, infatti, va classificata tra le 'ingiurie' perche' e' come dire che la persona e' affidata ''alla protezione di qualcuno nell'assunzione dell'incarico'' che riveste. Dunque ha valore di ''offesa''. Cosi' si é espressa la Quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza 37455.
“Inerzia di un pubblico ufficiale”
Quando l’inerzia di un pubblico ufficiale costituisce reato: la previsione dell’articolo 328 del codice penale: i delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a. ridisciplinati dalla legge 86 del 1990
La Corte di Cassazione, sez. VI, con una decisione del 10 ottobre 2000, n. 10538, aveva ribadito il principio secondo cui la nozione di rifiuto presa in esame dall'art. 328 del codice penale, implicasse un atteggiamento di diniego di fronte ad una richiesta di intervento o ad una sollecitazione del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio. Il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, possono essere chiamati a rispondere del reato di rifiuto d'atti d'ufficio, ivi contemplato, tanto nel caso in cui si rifiutino di attivarsi nonostante una espressa richiesta d'intervento, sia anche nel caso di una sollecitazione esterna in tal senso. L’articolo 328 del codice penale dispone infatti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuti un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, sia punito con la reclusione per un periodo che va da sei mesi a due anni.
E’ previsto inoltre che, fuori dai casi previsti da tale disposizione, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compia l'atto del suo ufficio e non risponda per esporre le ragioni del ritardo, sia punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a lire due milioni. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa. Si ricorda che la legge 86 del 26 aprile 1990 ha introdotto rilevanti modifiche nella disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione.
Legge 26 aprile 1990, n. 86 (in GU 27 aprile 1990, n. 97)
“Qualifica superiore”
Diritto alla qualifica superiore, prescrizione decennale; diritto alle differenze retributive per la qualifica superiore, prescrizione quinquennale: Corte di Cassazione, decisione n.7116 del 2005
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7116 del 6 aprile 2005 e tornata a pronunciarsi sul delicato tema delle mansioni superiori e della esatta connotazione della “qualifica", discostandosi in tale sede dall'orientamento secondo cui questa non e configurabile come bene giuridico protetto indipendentemente dal trattamento economico e normativo.
La Suprema Corte ha sancito infatti come il diritto del lavoratore dipendente alla qualifica superiore si prescriva nell'ordinario termine decennale di cui all'art. 2946 cod. civ., mentre quello per il credito derivante dalle differenze retributive spettanti per la superiore qualifica sia invece soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2948 cod. civ.
Mansioni superiori
Suprema Corte di Cassazione sezione Lavoro Sentenza 6 aprile 2005, n° 7116
Con ricorso del 9 marzo 1994 F.D., gia dipendente dell'Enel dal 1° febbraio 1965 all'agosto 1991, assumendo di essere stato inquadrato nella categoria B2, dal 29 ottobre 1979 al 1° maggio 1983, ma di avere espletato le mansioni superiori di preposto al turno, cat. B1, in diversi periodi ciascuno di durata non eccedenti i giorni ventuno, chiedeva il riconoscimento del diritto all'inquadramento superiore, con condanna della societa datrice di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive.
Il Tribunale di Trapani, con sentenza non definitiva del 12 novembre 1999, affermava il diritto del D. alla qualifica B1 dal 28 dicembre 1980 e alle differenze retributive nei limiti della prescrizione quinquennale, disponendo la prosecuzione del giudizio per la determinazione delle somme spettanti all'attore.
La decisione, impugnata dall'Enel Distribuzione s.p.a., anche quale mandataria dell'Enel s.p.a., a cui era succeduta a titolo particolare, era riformata dalla Corte di appello di Palermo, che rigettava la domanda.
Il giudice del gravame riteneva fondata la eccezione di prescrizione del diritto alla qualifica, che tempestivamente sollevata in primo grado era stata reiterata dalla societa in appello.
Avverso questa sentenza il D. ha proposto ricorso per Cassazione con un motivo, illustrato con memoria.
L'Enel Distribuzione s.p.a. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
L'unico motivo, nel denunciare violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2946, critica la sentenza impugnata per avere ritenuto la qualifica del lavoratore un diritto di credito soggetto alla prescrizione decennale, trattandosi invece, ad avviso del ricorrente, di un presupposto di talune situazioni giuridiche soggettive facenti capo al lavoratore, con la conseguente possibilita per costui di chiedere ed ottenere l'accertamento della propria qualifica, non come affermazione di un diritto ma come verifica dei risultati del processo d'inquadramento, domanda percio imprescrittibile.
La censura e infondata alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte, che,salvo il precedente citato dal ricorrente, elaborato con la sentenza 29 ottobre 1998 n. 10832, e nel senso che il diritto del lavoratore subordinato alla qualifica superiore si prescrive nell'ordinario termine decennale di cui all'art. 2946 cod. civ., mentre quello per il credito derivante dalle differenze retributive spettanti per la superiore qualifica e soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2948 cod. civ. (Cass. 17 luglio 2001 n. 9662, Cass. 23 agosto 1997 n. 7911, Cass. 6 luglio 1996 n. 6750, Cass. 18 maggio 1995 n. 5486, Cass. 19 gennaio 1993 n. 612, Cass. 28 aprile 1992 n. 5081, Cass. sez. unite 18 dicembre 1987 n. 9417, e v. pure Cass. 23 maggio 2003 n. 8228, Cass. 18 agosto 1999 n. 8710, Cass. 24 aprile 1998 n. 4245). A tale indirizzo, condiviso da autorevole dottrina, presta adesione il Collegio, non essendo state prospettate valide ragioni che inducano a discostarsene, ed essendo esso preferibile rispetto alla tesi sostenuta da altra parte della dottrina e richiamata dal ricorrente, secondo cui la qualifica non e configurabile come bene giuridico protetto indipendentemente dal trattamento economico e normativo: si deve infatti considerare il diritto del lavoratore di rivendicare l'esatto inquadramento spettategli in base alle mansioni concretamente svolte. La sentenza impugnata ha deciso conformemente al suesposto orientamento e deve andare quindi esente da censure.Il ricorso deve, dunque, essere rigettato e il D., in quanto soccombente, e tenuto alla rifusione nei confronti della resistente delle spese del giudizio di Cassazione, determinate come in dispositivo.
Molestie sessuali: la “palpatina” al sedere di una collega può essere causa di licenziamento
Passano le mode, cambiano le leggi, mutano le strutture degli uffici, ma “certi comportamenti”, come la “palpatina” alla collega, pare proprio che stenti a passare di moda e, sul punto, neanche la Corte di Cassazione sembra orientata a cambiare avviso. Insomma tutto come prima: il sedere della collega non si puo toccare, nemmeno per scherzo, perché sostanzia la molestia sessuale, anche per l’elemento, sicuramente grave, della violazione del consenso della collega stessa. E chi infastidisce in tal modo la compagna di lavoro, oppure sceglie l’alternativa dell’esibizionismo (lasciando per esempio volutamente aperta la porta del bagno), rischia addirittura il licenziamento. In tal senso si e pronunciata la Corte di Cassazione, che ha riformato una sentenza della Corte d’Appello di Brescia, grazie alla quale il protagonista di un simile episodio, in mancanza di una esatta puntualizzazione dei fatti, licenziato dal datore di lavoro, era stato reintegrato nel posto di lavoro. Stando ai fatti, quel dipendente di una societa manifatturiera della Val Brembana si era reso responsabile di due palpate nella zona “interessata” di una collega, ma il tribunale di secondo grado aveva ritenuto il licenziamento una sanzione eccessiva rispetto al comportamento posto in essere. Piu severa, e coerente con altre decisioni in materia, la Corte di Cassazione, che ha sottolineato peraltro come il comportamento sessualmente molesto non cada mai in prescrizione.
“Ferie”
Per Cassazione e Codice civile le ferie vanno godute entro l’anno di lavoro
Le ferie costituiscono nel nostro ordinamento giuslavoristico l’istituto finalizzato a consentire al lavoratore il recupero delle energie fisiche e psichiche spese a seguito dell’attività lavorativa svolta. Su questo presupposto e da ritenere che le ferie annuali debbano essere godute entro l'anno di lavoro e non successivamente: una volta decorso l'anno di competenza, il datore di lavoro non puo imporre al lavoratore di godere effettivamente delle ferie non godute né può stabilire il periodo nel quale goderle, ma e tenuto al risarcimento del danno in quanto il comportamento limitativo posto in essere risulta lesivo dei diritti del lavoratore, impedendo a questo di godere delle ferie maturate nell'anno di riferimento ed avendo illegittimamente esercitato il suo potere di differimento del periodo delle ferie all'anno successivo, come sottolineato anche dalla Corte Costituzionale con sentenza 19 dicembre 1990, n. 543. I giudici della sezione lavoro della Corte di Cassazione, con decisione n.13980 del 24 ottobre 2000, hanno richiamato sul punto l'art. 1209, secondo comma, del codice civile, in base al quale il prestatore di lavoro ha diritto, dopo un anno di ininterrotto servizio, a un periodo annuale di ferie retribuite, possibilmente continuativo, nel tempo che comunque il datore di lavoro stabilisce tenendo conto sia delle esigenze dell'impresa e sia degli interessi del prestatore di lavoro. La norma attribuisce effettivamente al datore di lavoro un potere di natura discrezionale che non e tuttavia privo di vincoli, e deve comunque rispettare l'obbligo di comunicazione preventiva al prestatore di lavoro circa il periodo stabilito per il godimento delle ferie. La norma specifica inoltre, al terzo comma, che le ferie debbano essere godute entro l'anno e non successivamente. Il datore di lavoro dovra quindi organizzare il periodo di ferie in modo utile per le esigenze dell'ente o azienda, ma non porre in essere una calendarizzazione delle stesse che risulti ingiustificatamente vessatoria nei confronti dei dipendenti.
“Notifica atti al portiere”
Nulla la notifica nelle mani del portiere se l'ufficiale giudiziario non attesta il mancato rinvenimento del destinatario dell’atto
E' nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell'ufficiale giudiziario non contiene l'attestazione del mancato rinvenimento del destinatario e delle persone indicate in ordine di preferenza tra loro e rispetto al portiere, dall'art. 139 c.p.c.
Il principio e stato di recente ribadito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 8214 depositata il 20 aprile 2005.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE UNITE CIVILI ORDINANZA 20-04-2005, n. 8214
Rilevato che la notificazione del ricorso introduttivo alla …(omissis)…….. ha avuto luogo a mani del portiere e che la relata non indica in alcun modo l'avvenuto previo inutile tentativo di consegna dell'atto a mani proprie del destinatario o delle persone indicate in ordine di preferenza tra loro e rispetto al portiere, dall’articolo 139 c.p.c. ; Rilevato che, in caso di notifica nelle mani del portiere, l'ufficiale notificante deve dare atto, oltre che dell'assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate ad avere l'atto, onde il relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente tradursi in forme sacramentali ne riprodurre testualmente le ipotesi normative, deve, non di meno, attestare chiaramente l'assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dal secondo comma dell'art. 139 CPC, la successione preferenziale dei quali vi e tassativamente stabilita;
Rilevato che, come ripetutamente evidenziato da questa Corte, e, pertanto, nulla la notificazione nelle mani del portiere quando, come nella specie, la relazione dell'ufficiale giudiziario non contenga l'attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma citata (ex pluribus, Cass. 11.5.98 n. 4739, 1387, 21.11.83 n. 6956);
Rilevato che parte intimata non ha svolto difensiva, onde la detta nullita non ha beneficiato la sanatoria che sarebbe stata consentita ove fosse stato, in tal modo, dimostrato avere l'atto raggiunto comunque il suo scopo; Ritenuto doversi, consequenzialmente, discorre, ex art. 291 CPC, la rinnovazione della notificazione del ricorso;
P.Q.M.
Dispone la rinnovazione della notificazione del ricorso, concedendo all'uopo il termine di giorni dalla comunicazione della presente ordinanza, la causa a nuovo ruolo.
Cosi deciso in Roma, il 7 aprile 2005.
“Induzione alla accettazione di disciplina peggiorativa”
Indurre un lavoratore ad accettare una disciplina peggiore rispetto a quella dovuta per contratto può configurare il reato di estorsione
La Suprema Corte, con decisione n.5426 dell’11 febbraio 2002, ha ritenuto che l’estorsione possa configurarsi anche quando si presentino a danno di un lavoratore, circostanze oggettive, come l’ingiustizia della pretesa, la personalita' gerarchicamente superiore e la soggezione della vittima a intimidazioni.
Nella fattispecie considerata, riferita a dipendenti di imprese di pulizie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la presenza di un eventuale accordo contrattuale, non esclude la sussistenza del reato di estorsione, allorché si sia in presenza di una celata minaccia ingiusta, idonea a condizionare la volontà del lavoratore, “coactus” ad accettare condizioni inique pur di non perdere opportunita' lavorative.
“Il danno da dequalificazione” spada di Damocle per il lavoratore dipendente
Se in tempi recenti il personale contrattualizzato della P.A. ha conosciuto i criteri, i vantaggi e le contraddizioni della “riqualificazione”, da sempre il lavoratore subordinato conosce il rischio ed il danno di una eventuale “dequalificazione” professionale, ossia di un (indebito) impoverimento, talvolta mortificatorio, del proprio ruolo lavorativo, che poi inevitabilmente riverbera i suoi effetti anche sulla vita “privata” del lavoratore. Va detto preliminarmente come la dequalificazione non venga posta in essere unicamente con la formale rimozione da un incarico e con la contestuale attribuzione di competenze nuove e di minor prestigio; spesso essa si realizza con tecniche piu sottili e meno evidenti, come il progressivo svuotamento delle mansioni affidate, oppure la non assegnazione di risorse e strutture essenziali per l’assolvimento dell’incarico ricoperto. In tal modo il dequalificato subisce un attacco alla sua job satisfaction, e la stessa aria del clima organizzativo dell’ambiente di lavoro intorno a lui diventa irrespirabile , grazie a strategie tipiche del mobbing. Squalificato spesso e sinonimo di sfiduciato, per cui il lavoratore non viene nemmeno consultato, convocato o ascoltato sulle tematiche che riguardano lui o l’attivita un cui opera, la materia di cui si occupa. La Corte di Cassazione si e occupata frequentemente di tale problematica, con particolare attenzione al danno non patrimoniale da essa derivante (Dec. 10157 del 26 maggio 2004), che non e costituito dal solo danno morale ma anche dal danno biologico, che deve pero risultare da un accertato nesso di causalita tra l’illegittima dequalificazione e la patologia psico-fisica insorta. La difficile individuazione di parametri economici e reddituali per una valutazione risarcitoria comporta peraltro la necessaria liquidazione giudiziaria in via equitativa. Per quel che attiene al danno d’immagine la Suprema Corte ha categoricamente affermato la non necessita di una prova essendo la prova della lesione in re ipsa. Se il danno da dequalificazione professionale si verifica nell’ambito del pubblico impiego appare inoltre ipotizzabile una responsabilita da danno amministrativo.
Sul piano normativo la dequalificazione viola l’articolo 2103 del codice civile (“il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali e stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito…..”), ma ancor prima il principio della libera espressione della propria personalita da parte di ciascun individuo (anche nell’ambito professionale) ai sensi degli articoli 1 e 2 della Costituzione. Non va inoltre sottovalutato come la dequalificazione pur incidendo sull’autostima e sull’eterostima nell’ambito del lavoro, non si limita a questa area, ma produce effetti penalizzanti anche sul piano socio-personale: la stessa famiglia tende spesso ad assimilare la dequalificazione ad un insuccesso definitivo del congiunto da aggettivare con la “sentenza”, di norma non pronunciata, di fallimento. All’evento dequalificatorio fa seguito spesso anche la perdita di opportunita lavorative, o un ridimensionamento al ribasso delle stesse, aspetto questo da valutare attentamente dal giudice competente sempre con criterio equitativo ex art. 1226 c.c., che condurra ad una liquidazione economica a favore del “dequalificato” non reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico patito dall’interessato (in tal senso Sent. Cassaz. nn.8827 –8828 del 2003).
“Perequazione trattamenti pensionistici”
Ribadita dalla Corte dei conti, sez. Puglia, la perequazione dei trattamenti di pensione alle retribuzioni del personale in servizio di pari qualifica ed anzianità (sent. 70 del 26 gennaio 2005)
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale della Regione Puglia, con la sentenza n.70 del 26 gennaio 2005, ha ribadito il principio dell’automatico collegamento dei trattamenti pensionistici alle retribuzioni del personale in servizio di pari qualifica. La sentenza, richiamando il dettato degli articoli 36 e 38 della Costituzione, ha disposto la rideterminazione del trattamento pensionistico di un dipendente del Ministero della Difesa inclusivo dei miglioramenti economici concessi al personale in servizio di pari qualifica ed anzianità.
Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale Regionale Puglia - Sentenza 26 gennaio 2005, n.70
( Omissis ) Il ricorrente chiede la perequazione del trattamento pensionistico sulla base dei miglioramenti economici conferiti al personale di pari qualifica in attività di servizio, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 501 del 1988 .
Con ordinanza emessa nella pubblica udienza del 30 gennaio 2002, questo Giudice ha disposto l’accertamento di quale entità sia, in termini monetari e percentuali, lo scostamento tra il trattamento pensionistico del ricorrente ed il trattamento economico del personale in servizio di pari qualifica, a partire dalla data di collocamento a riposo.
Il Comando in Capo del Dipartimento Militare Marittimo dello Jonio e del Canale d’Otranto – Ufficio Pensioni ha trasmesso in data 17 gennaio 2002 varia documentazione riguardante la posizione pensionistica del ricorrente e in data 23 agosto 2003 , in ottemperanza della ordinanza emessa nella pubblica udienza del 30 gennaio 2002, un prospetto riepilogativo delle differenze - nel periodo 1.7.1977/31.1.2002 - tra trattamento pensionistico del ricorrente e trattamento economico del personale in servizio, oltre varia documentazione.
Dai dati trasmessi, si evince che il ricorrente ha percepito nel periodo considerato un trattamento pensionistico pari a €. 111.900,97 a fronte di uno “ stipendio spettante teorico “ ( id es, trattamento economico del personale in servizio di pari qualifica e anzianità ) di €. 139.581,93, con conseguente divario di £. 27.680,96 e scostamento del 24.7370 %.
All’odierna udienza le cause sono state riunite ai sensi dell’art. 274 c.p.c., reso applicabile ex art. 26 R.D. 1038/1933 ai giudizi pensionistici innanzi alla Corte dei conti.
Le odierne cause ripropongono, infatti, la questione della vigenza nell’ordinamento del principio di automatico collegamento della misura delle pensioni al trattamento retributivo del personale in servizio
Il suddetto principio non è, in effetti, contenuto in alcuna espressa disposizione legislativa che lo sancisca in termini generali, ma viene di volta in volta invocato quando si ponga per una categoria di pubblici dipendenti la necessità di uno speciale adeguamento del trattamento di quiescenza, in relazione ad una dinamica salariale del personale in servizio che venga a discostarsi in misura notevole dai valori economici precedentemente attribuiti e sui quali veniva calcolato il trattamento di quiescenza.
La Corte costituzionale ( sent. n. 409 del 1995 ) ha avuto occasione di affermare che i modi attraverso i quali perseguire l’obiettivo dell’aggiornamento delle pensioni dei pubblici dipendenti possono essere, in via di principio, o la riliquidazione ( allineamento delle pensioni al trattamento di attività di servizio di volta in volta disposto con apposita legge ) o la c.d. “ perequazione automatica “ consistente in un meccanismo normativamente predeterminato, che adegui periodicamente i trattamenti di quiescenza agli aumenti retributivi intervenuti mediamente nell’ambito delle categorie del lavoro dipendente.
E’ certo, comunque, che solo in casi particolari il legislatore ha ritenuto di agganciare automaticamente la pensione allo stipendio, dettando apposite disposizioni ( cfr. art. 2, comma 2°, L. 27 ottobre 1973 n. 629, recante nuove disposizioni per le pensioni privilegiate ordinarie in favore dei superstiti dei caduti nell’adempimento del dovere, appartenenti ai Corpi di Polizia ).
Va in proposito ricordato che la Sezione III Giurisdizionale Pensioni Civili, con decisione n. 49970 del 12 maggio 1982, si era in origine espressa nel senso che l’articolo 11 della L. 24 maggio 1951 n. 392 avesse introdotto nell’ordinamento il principio dell’adeguamento permanente delle pensioni del personale di magistratura alle retribuzioni dei pari grado in servizio, senza bisogno di appositi provvedimenti legislativi.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, ritenuto che detta norma non avesse valore di disposizione a carattere generale intesa a tale automatico e permanente adeguamento pensionistico, con ordinanza n. 104 del 24 giugno 1985 avevano investito la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della normativa nel frattempo intervenuta, che non prevedeva criteri atti a garantire trattamenti pensionistici proporzionati alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Con sentenza n. 501 del 21 aprile/5 maggio 1988 la Corte costituzionale, preso atto del cospicuo divario che, per il personale di magistratura, si era verificato tra pensioni e retribuzioni a seguito della L. 6 agosto 1984 n. 425 dopo avere affermato “ l’esigenza di un costante adeguamento “ dei due trattamenti, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 1, 3 comma 1 e 6 della L. 17 aprile 1985 n.141 nella parte in cui avevano disposto rivalutazioni percentuali invece di assicurare l’adeguamento attraverso una apposita riliquidazione, con decorrenza 1° gennaio 1988, delle pensioni dei soggetti esclusi dai nuovi stipendi perché collocati in quiescenza anteriormente al 1° luglio 1983.
A seguito dei detta sentenza, alcuni magistrati, avendo già beneficiato della riliquidazione sulla base del trattamento spettante in applicazione della L. n.425/1984, chiesero l’ulteriore adeguamento automatico della loro pensione, come sopra liquidata, alle successive variazioni del trattamento di attività ottenute dai pari grado alle date del 1° gennaio 1989 e 1° gennaio 19990, nonché il riconoscimento del diritto all’adeguamento permanente in relazione ad ulteriori aumenti futuri, per effetto del meccanismo di incremento costante previsto dall’articolo 2 della L. 19 febbraio 1981 n. 27.
La giurisprudenza di questa Corte ( SS.RR.14 novembre 1988 n. 76/c ; Sezione del controllo 17 novembre 1988 n. 2021; Sezione III Giurisdizionale Pensioni Civili, nn. 62911, 62912 e 62913 del 20 marzo 1989 ) si pronunciò inizialmente in senso favorevole ai ricorrenti.
Secondo tale giurisprudenza si era sostanzialmente instaurato un meccanismo di aggancio automatico e perenne tra pensioni e stipendi dei magistrati.
Successivamente, però, la stessa Sezione III Giurisdizionale Pensioni Civili, con ordinanza del 21 maggio 1990, constatata l’esistenza di un vuoto legislativo che legittimasse tale principio, denunciava l’illegittimità costituzionale della norma di cui all’articolo 2 della L. 19 febbraio 1981.
La Corte costituzionale, non condividendo la prospettata questione di legittimità costituzionale, con ordinanza n. 95 dell’11/16 febbraio 1991 ne dichiarava la manifesta inammissibilità, rilevando che “ una sentenza atta ad innestare nella normativa pensionistica n meccanismo di adeguamento periodico concepito per il personale di servizio “, comportando varietà di scelte e molteplicità di implicazioni, sarebbe stato il risultato di attività “ certamente estranea al sindacato di costituzionalità e viceversa propria del legislatore”.
Il legislatore interveniva qualche mese dopo, con la L. 8 agosto 1991 n. 265, sottoposta, come è noto al vaglio della Corte costituzionale in più riprese e sotto diversi profili di incostituzionalità.
Con sentenza n. 42 del 28 gennaio/10 febbraio 1993 la Corte costituzionale affermava che “ il legislatore, nell’escludere dalla riliquidazione delle pensioni l’applicabilità del meccanismo di adeguamento aveva esercitato una discrezionalità sua propria “, volendo limitare gli effetti dello stesso nell’ambito esclusivo del trattamento stipendiale per il quale era stato concepito.
Nel ribadire che esula dai limiti del controllo di legittimità l’operazione additiva consistente in una mera trasposizione dell’istituto nel settore pensionistico ( dichiarando, quindi, inammissibile la sollevata questione di legittimità costituzionale ) la Corte osservava tuttavia che “ la radicale opzione nel senso di cristallizzare la riliquidazione alle misure stipendiali dal 1° luglio 1983, senza alcun conto, neppure parziale, degli adeguamenti, né prima né dopo “ non può non prospettarsi come fattore di nuove e ulteriori divaricazioni tra pensioni e stipendi, rappresentando l’ipotesi che nel medio periodo l’andamento delle retribuzioni finirà per discostarsi dalle pensioni “ ben al di là di quel ragionevole rapporto di corrispondenza, sia pure tendenziale ed imperfetto “ a suo tempo richiesto dalla stessa Corte ai sensi degli articoli 3 e 36 della Costituzione, con la ovvia conseguenza che le considerazioni svolte nella sentenza n, 501 del 1988 a proposito dell’omesso calcolo delle anzianità pregresse ben potrebbero alla mancata previsione di un qualsivoglia meccanismo di raccordo tra variazioni retributive indotte dagli aumenti del pubblico impiego e computo delle pensioni, così determinando l’esigenza di un riesame della questione di costituzionalità ( 2un riesame della questione di costituzionalità si sarebbe reso necessario ove nel futuro la divaricazione fra stipendi e pensioni si discostasse da un ragionevole rapporto di corrispondenza “ ).
Successivamente, con sentenza n. 409 del 20/27 luglio 1995, la Corte costituzionale dichiarava ancora una volta non fondate o manifestamente infondate alcune questioni sollevate dalla sezione Giurisdizionale Sicilia e dalla Sezione Giurisdizionale Lazio, e pur riaffermando il principio costituzionale di proporzionalità ed adeguatezza della pensione, da garantire non soltanto con riferimento al momento del collocamento a riposo ma anche in prosieguo, in relazione alle variazioni del potere di acquisto della moneta, rilevava che all’attualità ( e, quindi, nel 1995 ) tutto ciò appare assicurato dai meccanismi perequativi e rivalutativi esistenti, ribadendo che spetta al legislatore ragionevolmente soddisfare nel tempo detta esigenza ed escludendo che questo comporti inderogabilmente un costante e periodico allineamento delle pensioni al corrispondente trattamento di attività di servizio.
Inoltre, con ordinanza n.531 del 6/18 dicembre 2002, la Corte costituzionale interveniva nuovamente sul tema, investita dalla Sezione Giurisdizionale Regionale Puglia, riaffermando i suddetti principi e, in particolare, che spetta al legislatore determinare le modalità di attuazione del principio sancito dall’articolo 38 della Costituzione - con riguardo al “ bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti, anche in relazione alle risorse finanziarie disponibili e ai mezzi necessari per far fronte agli impegni di spesa…con il limite comunque di assicurare “ la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona “ ( sentenza n. 457 del 1998 )” e aggiungendo qualcosa di più: e cioè, che “ l’esigenza di adeguamento delle pensioni alle variazioni del costo della vita è assicurata attraverso il meccanismo della perequazione automatica del trattamento pensionistico ( attualmente disciplinato dal d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 503 “…. )”.
Tale meccanismo di adeguamento al costo della vita è stato considerato dalla Corte costituzionale, con sentenza n.30 del 13/23 gennaio 2004, emessa su rimessione della Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale, idoneo ad assicurare il rispetto dell’articolo 36 della Costituzione, e la sua validità è stata ribadita con la recente ordinanza n. 383 dell’1/14 dicembre 2004, nella quale è stata respinta la questione di legittimità costituzionale – sollevata dalla sezione Giurisdizionale Regionale Calabria - della mancata previsione, ad opera della L. 141 del 1985, della riliquidazione del trattamento pensionistico dei pubblici dipendenti collocati a riposo, a far data dal 1° gennaio 1988.
Sulla base di quanto sopra, la giurisprudenza costante della Corte dei conti è nel senso della inesistenza, nell’ordinamento giuridico italiano, di un principio di adeguamento automatico delle pensioni alle retribuzioni ( cfr., ad es., Sez. Reg. Lombardia 20 novembre 2002 n. 1906 ) .
Ciò premesso, deve precisarsi che la costruzione giurisprudenziale della inesistenza di un principio costituzionale che garantisca il costante adeguamento delle pensioni al successivo trattamento economico dell’attività di servizio risente dell’influenza esercitata in subjecta materia dalle decisioni emesse dalla Corte costituzionale, che appartengono alla tipologia delle decisoni di rigetto.
Tale tipo di decisioni non pone particolari problemi, a differenza delle decisioni interpretative di rigetto, contraddistinte dall’inserimento nel dispositivo delle parole “ nei sensi in motivazione “, formula con la quale si intende esprimere il carattere condizionale della sentenza e la portata di “ doppia pronuncia “ che essa assume.
In relazione a queste ultime, infatti, si è acceso recentemente il conflitto fra la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale in ordine al problema della loro efficacia.
Hanno affermato, infatti, le Sezioni Unite penali, con la sentenza del 17 maggio 2004 n. 23016, il seguente principio di diritto: “ Le decisoni interpretative di rigetto della Corte costituzionale non hanno efficacia erga omnes, a differenza di quelle dichiarative dell’illegittimità costituzionale di norme, e pertanto determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione “.
L’occasione è stata offerta dalla interpretazione – contrastata da molti giudici di merito e dalla stessa Cassazione - secondo cui l’articolo 303, comma 2°, del c.p.p. non è in contrasto con il dettato costituzionale. Si tratta della norma secondo cui, in caso di regresso del processo, per l’imputato detenuto ricominciano a decorrere i termini della fase della custodia cautelare. Norma che la Consulta ha ritenuto costituzionale con la sentenza n. 292 del 1998, che è interpretativa di rigetto, come le successive ordinanze, con le quali è stata dichiarata la infondatezza ( n. 429/1999 ) o la inammissibilità ( n. 243/2003, n. 335/2003, n.59/2004 ) delle medesime questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici di merito.
Osservano le Sezioni Unite penali, nella sentenza n. 23016/2004 cit., che “ L’autonomia e l’indipendenza del giudice nell’interpretazione della legge sono presidiate, a loro, volta dalla garanzia apprestata dalla specifica previsione dell’articolo 101, comma 2, Costituzione, dalla quale direttamente deriva la rigida tutela di un tale potere da possibili interferenze e condizionamenti esterni…” e che “…l’autonomia riconosciuta dalla Costituzione ad ogni giudice non riguarda soltanto le operazioni ermeneutiche aventi ad oggetto leggi ordinarie ed atti con forza di legge, ma si estende al contenuto e alla portata delle disposizioni costituzionali, che si inseriscono nell’ordinamento come norme-principio, conformando i lineamenti del sistema e ponendosi quali imprescindibili parametri di riferimento nell’interpretazione delle disposizioni che lo costituiscono “.
Condividendo l’orientamento della Corte di Cassazione, rivendica questo Giudice a sé il compito di interpretare in modo autonomo ed indipendente le norme costituzionali in materia pensionistica ( artt. 36 e 38 ) - a maggior ragione , come nel caso in esame , in presenza di una interpretazione della Corte costituzionale espressa attraverso decisioni ( mere ) di rigetto, che non vincolano il giudice - giungendo ad affermare la vigenza nel nostro ordinamento di un principio di collegamento delle pensioni alla dinamica delle retribuzioni del settore pubblico sulla base della applicazione diretta degli artt. 36 e 38 della Costituzione.
Come è noto, nella Costituzione italiana non esiste una previsione espressa della applicazione diretta dei diritti costituzionali nei rapporti intersoggettivi, corrispondente al § 3 dell’art. 1 della legge fondamentale ( Grundgesetz ) della Repubblica federale tedesca del 1949 , anche se questa efficacia diretta orizzontale - la c.d. drittwirkung – è stata ormai riconosciuta dalla Corte costituzionale ( ad es., nelle sentt. 122/1970 e 88/1979 in tema di diritto alla salute, considerato suscettibile di fondare direttamente la pretesa del lavoratore di ottenere il risarcimento del danno determinato dalle condizioni di lavoro nell’impresa; nelle sent. 156/1971 e 177/1984, in tema di diritto del lavoratore ad una retribuzione minima, ex art. 36 cost. ), nonché dalla Corte dei Cassazione ( in tema di contratti: n.10511/1999; in tema di risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo: n. 4083/1996 e n.500/1999; in tema di risarcimento del danno alla persona: n.7713/2000 , n.8828/2003 e 233/2003; in tema di sequestro penale: n. 3572/1995; in tema di diritto alla salute: n. 3870/1994) e dalla dottrina.
Nel quadro della giurisprudenza costituzionale, non solo non è dato rinvenire alcuna affermazione in contrasto con la c.d. drittwirkung dei giudici, ma plurime sono addirittura le pronunzie a quella applicazione diffusa dei precetti costituzionali danno invece impulso.
La posizione della Corte nei riguardi dell’istituto in esame si esprime in particolare : a) dando l’istituto stesso per presupposto e facendovi richiamo come dato complementare di disciplina di determinate materie ( n.333/1991 ); b) esortando anzi i giudici a farne applicazione ( n. 34/1973 ); c) rimarcandone addirittura la necessità in determinati contesti normativi ( n.184/1986 ); d) rimovendo, infine, ostacoli, frapposti dal legislatore ordinario, alla sua operatività ( n. 313/1990 )
Un principio equivalente a quello della c.d. drittwirkung è peraltro ricavabile per implicito dall’incipit dell’articolo 2 della Costituzione italiana, per cui “ la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo “ ( cfr., Cass. 20 aprile 1994 n.3775 ).
Staccandosi dal piano puramente concettuale, ci si accorge che l’utilizzo della applicazione diretta ( cfr., di recente, Corte cost. n. 512/2002 ) presuppone una concezione della Costituzione vista non soltanto in posizione di difesa nei riguardi di interventi positivi del legislatore ma come atto normativo idoneo a soddisfare in modo diretto, senza la necessaria intermediazione legislativa, la domanda di giustizia che proviene dalla società.
La Corte costituzionale, data la natura di retribuzione differita che deve riconoscersi al trattamento pensionistico, ha costantemente affermato il principio della proporzionalità della pensione alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché della sua adeguatezza alle esigenze di vita del lavoratore della sua famiglia, nel pieno rispetto dell’art. 36 Cost. ( sentenze n. 243 del 1992; n. 96 del 1991; n. 501 del 1988; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980 e n. 124 del 1968 ) e tuttavia ha altrettanto costantemente affermato che non esiste un principio costituzionale che possa garantire l’adeguamento costante delle pensioni agli stipendi, spettando alla discrezionalità del legislatore determinare le modalità di attuazione del principio sancito dall’art. 38 Cost. sulla base di un “ ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti (…) compresi quelli connessi alla concreta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per farvi fronte ai relativi impegni di spesa “ ( sentenza n. 119 del 1991 ) - nello stesso senso, cfr. ordinanza n. 531 del 2002 e sentenze n. 457 del 1998 e n. 226 del 1993 - ma con il limite, comunque, di assicurare “ la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona “ ( sentenza n. 457 del 1998 ).
La stessa Corte costituzionale ha, comunque, affermato che l’eventuale verificarsi di un irragionevole scostamento tra i due trattamenti può costituire un indice della non idoneità del meccanismo scelto dal legislatore ad assicurare la sufficienza della pensione in relazione alle esigenze del lavoratore e della sua famiglia ( sentenze n. 409 del 1995 e n. 226 del 1993 ) .
Orbene, secondo dati ufficiali che sono comparsi sulla stampa nazionale ( cfr. “ La Repubblica “ dell’8 marzo 2004 ), un quarto dei pensionati italiani si è drasticamente impoverito a causa principalmente della abolizione del meccanismo della indicizzazione piena all’inflazione e dello sganciamento delle pensioni dalla dinamica salariale, a partire dal 1992.
Un esempio numerico, che per comodità di comprensione è tracciato in vecchie lire, indica che una pensione che nel 1987 ammontava a 13 milioni di lire lorde annue, nel 2004 è arrivata a 25 milioni e 900 mila lire. Se la pensione si fosse rivalutata completamente, tenendo conto dell’aumento totale della inflazione nel corso dei 18 anni in questione, avrebbe raggiunto i 26 milioni e 200 mila lire. Durante i 18 anni in questione, dunque, la perdita è stata di 3 milioni e 152 mila lire.
Che il problema esista si sono rese conto le forze politiche rappresentate in Parlamento, in quanto risulta presentata il 18 novembre 1998 la proposta di legge n. 5418 ( “ Disposizioni in materia previdenziale “)
Nella presente situazione delle pensioni del settore pubblico, pertanto, sembra non si possa individuare più l’esercizio di una discrezionalità legislativa nell’attuare – sia pur variamente – l’adeguamento costante tra i due tronconi del trattamento retributivo ( quello di attività e quello pensionistico ) ma che si debba parlare di una completa negazione di quel principio di “ solidarietà “ tra lavoratori e pensionati, cui si deve affiancare una solidarietà più ampia dell’intera collettività, come argomenta la sentenza costituzionale n. 226/1993; si tratta di principi che - aggiunge la sentenza –se non richiedono una rigorosa corrispondenza tra contribuzioni e prestazioni previdenziali esigono però un limite di ragionevolezza nel legiferare che sembra nella specie del tutto obliterato, non essendoci più alcuna commisurazione delle pensioni agli stipendi.
Né può essere dimenticato che se è vero – come la Corte costituzionale ha più volte rilevato – che il legislatore deve farsi carico della non illimitatezza delle risorse finanziarie, è anche vero che dalla natura retributiva del trattamento di quiescenza sembrano derivare conseguenze non trascurabili ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione.
In applicazione, quindi, degli articoli 36 e 38 della Costituzione ritiene questo Giudice, per le considerazioni sopra espresse, che debba essere affermato il diritto del ricorrente alla riliquidazione del trattamento pensionistico da parte dell’I.N.P.D.A.P., con aggancio ai miglioramenti economici concessi al personale di pari qualifica ed anzianità in attività di servizio, con decorrenza dal collocamento a riposo,
Ciò premesso, va riconosciuto il diritto del Sig. X alla corresponsione della complessiva somma di € 27.680,96 pari alla differenza tra quanto percepito come trattamento pensionistico nel periodo 1977/2002 e quanto gli sarebbe spettato ove in servizio nello stesso periodo.
Sulle somme in tal senso dovute spettano gli interessi legali e la rivalutazione monetaria, con decorrenza dalla scadenza legale di ciascun rateo.
A partire dal 2003 il trattamento pensionistico dovrà essere rideterminato dall’Amministrazione, secondo quanto sopra indicato, in modo che il ricorrente usufruisca dei miglioramenti economici concessi al personale in servizio di pari qualifica ed anzianità.
Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Accoglie i ricorsi, previa riunione, nei sensi in motivazione, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria nella misura di legge.
Spese compensate.