L’altro racconto contenuto nell’opera dell’Edizioni Robin è intitolato “Il mito”, una storia moderna dell’abbandono e della perdita che richiama per taluni aspetti la mitologica vicenda di Odisseo.
Il protagonista non si sente amato dal prossimo, forse neppure lui si ama più di tanto ed appare fondamentalmente solo; questo ci porta a pensare l’incipit di questo racconto, emblematicamente titolato “il disamore”. La storia si muove in una dinamica iniziale decisamente realistica: lui, giornalista, viene incaricato di realizzare un reportage su famose attrici del passato, un compito che lo conduce, in prima battuta, in una grande villa circondata da vasti terreni adibiti ad orto, ove dimora Judith, attrice un tempo bellissima, oggi sfiorita ma sempre affascinante, tanto da portare ad una rapida confidenza tra i due, che decidono di fare una gita nei pressi di un grande lago della zona che appare loro “come un cristallo opaco”.
Dopo una estemporanea esibizione teatrale della donna, comincia a piovere, anzi a diluviare ed il repentino cambiamento climatico coincide con un cambio di registro del racconto che si colora di tinte surrealiste, degne del miglior De Chirico. L’alluvione conduce la coppia in un mondo parallelo, in cui si inserisce Adamus, geografo e critico cinematografico, personaggio a dir poco strano, in linea con il nuovo registro della narrazione. I tre fanno sniffing l’un l’altro, si esplorano, ma fanno gruppo per necessità e trovano alloggio in un albergo, dove si intersecano sottili giochi di attrazioni e di strategie più o meno criptate. La visione congiunta del film “Disamore” di un regista polacco, cui non fanno seguito commenti espliciti, sembra invece dare nuova consapevolezza della presenza di questo sentimento - avversativo di amore - nell’intimità del giornalista, il quale, senza remora alcuna, decide di allontanarsi dai compagni d’avventura, anche se il prosieguo del suo viaggio non sarà per niente impervio e lo condurrà in ambiti inesplorati, più precisamente in un edificio di caratura metafisica, abitato e governato da una setta religiosa, con regole e personaggi di difficile affidabilità e ancor minore comprensione.
La dimensione di quel luogo, gli incontri e quant’altro accade nel monastero lager, dove ci scappa pure il morto, è palesemente problematica ed è resa faticosa dalla mancanza di libertà che impedisce ogni via d’uscita, cosa che però il nostro eroe riuscirà abilmente a trovare con una strategia eversiva, messa in esecuzione con alleanze dubbie e labili in occasione delle festività del Natale. A questo punto, il lettore, catapultato da un approccio realistico dentro ad un solido riflettente come una sfera di Escher, quintessenza di metafisica, uscito indenne da un diluvio biblico senza l’aiuto di un’arca, vuole sapere cosa c’è dopo l’ennesima delusione, dopo il disamore rigenerato che si è oramai insinuato come componente cronica della vita del nostro giornalista cinico, forse proprio per difetto d’amore. Cosa c’è sotto? Stiamo leggendo un racconto filosofico come il Candido di Voltaire?
Dall’intreccio si esce con la fuga ed ecco il ritorno al vecchio mondo, o meglio al mondo del post diluvio, dove non sembra intravedersi un nuovo orizzonte, dove è difficile individuare il sapore salutare della speranza, eppure, a vederci bene, in quel percorso si muove qualcosa di nuovo e di importante, c’è una bambina che cammina accanto al nostro giornalista.
“Diremo che sei mia figlia. D’accordo?”
Sì. “Mi chiamo Aurora, papà”
Il perficit del racconto non dà certezze ma mostra un chiaro segno di speranza, reale o metafisica che sia, c’è un percorso da intraprendere, forse la risposta che si cercava al disamore. (A.A.Bordi)