Opera prima di un’insegnante di Roma, edita nel 2013 per la “Edizioni Stravagario ”. Il libro è stato presentato a Roma il 12 dicembre presso la Libreria Croce in Via Pieve di Cadore
Il titolo non lascia dubbi: si tratta di una storia di adozione, quella che ha visto nel 2000 protagonista proprio la scrittrice che a Odessa è andata per avere finalmente un suo figlio.
Vassilij è nato lì , cresce qui in Italia e si chiama Michele. Oggi ha 14 anni ed è il ragazzo che si tuffa tra le nuvole in copertina.
Le storie di adozione condividono molti tratti salienti: l’incertezza, l’ insicurezza, l’entusiasmo e tante sensazioni impalpabili che riempiono i giorni dei genitori non biologici. Ma ciò che le differenzia quando diventano racconti è l’intensità della testimonianza di un’esperienza insieme unica e comune, perché unica è l’emozione e comuni i sentimenti e i fatti.
Barbara Germani, nel riportare la propria storia, ha scelto uno stile che calza come un guanto al suo percorso di adozione . Infatti ai mutevoli sentimenti nei confronti del proprio destino, di quello del figlio e di chi ha fatto sì, decidendo per lui, che così fosse , corrisponde una chiave narrativa che spinge in avanti e torna indietro nella storia , integrando con efficace coinvolgimento il senso del tempo oggettivo con quello, non commisurabile della speranza, del dubbio , della certezza, del desiderio e del dubbio nuovamente , in un percorso altalenante che ci fa tirare un sospiro di sollievo per un abbraccio di sguardi , ma ci rigetta poco dopo nel grigiore e nel freddo della città dove tutto deve ancora avvenire.
Concepito come un diario, e come tale non avaro di particolari che descrivono un paese lontano e diverso, il libro trova però la sua peculiarità nella delicatezza dei giudizi, nell’umana esitazione e nella completezza dei sentimenti che sono la testimonianza sincera della forza e dell’onestà di questa madre.
E tutto questo non ha niente a che fare con la biologia.
Il libro verrà presentato a Roma il 12 dicembre presso la Libreria Croce in Via Pieve di Cadore alle ore 19,00.
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” “Odessa- Ventitre febbraio 2000
E’mercoledì.
Il nostro, il mio mercoledì, il mercoledì di quello che tra poco sarà mio figlio!
Il mercoledì è considerato un giorno fortunato, mi piace pensare e ripensare a queste parole mentre l’autista ci accompagna, insieme a Eugenio, attraverso le vie di Odessa, una città che perde il suo vecchio fascino sotto i calcinacci che cadono dalle case fatiscenti, negli occhi disperati dei mille cani randagi che vivono per le strade e nell’espressione rassegnata degli anziani che frugano nell’immondizia alla ricerca di cibo commestibile.
Man mano che ci si allontana dal centro della città, lo squallore prende il sopravvento ed un senso di disagio mi attanaglia lo stomaco.
Fa freddo e lungo i marciapiedi sconnessi viandanti incappucciati percorrono i loro itinerari, qualcuno con le buste della spesa in mano, qualche altro con le mani in tasca e un mozzicone di sigaretta che pende dalle labbra violacee. I bambini in questa città grigia sono una pennellata di colore, i loro capelli chiari, d’argento sotto un cielo nuvoloso,si tingono d’oro quando il sole li scalda con la sua luce.
L’istituto che ospita il nostro bambino, uno dei tre in città, è contrassegnato con il numero 1 e sembra che, per motivi di favoritismi politici, sia il più curato di tutti.
E’ un edificio sobrio, quadrato, essenziale. L’ingresso è sul retro. Entriamo. Una scala porta al piano superiore…potrebbe essere l’androne di uno dei nostri palazzi più semplici ed è pulito e decoroso. Non saliamo le scale, ci accolgono in una piccola stanza dove attenderemo insieme ad altre due coppie.
L’emozione è forte, la tensione è alta, scambiamo pochi convenevoli, tutti con la mente rivolta al grande interrogativo su quell’attimo dell’immediato futuro che cambierà la vita di tre persone: una mamma, un paà, un figlio, un figlio che non ho mai sentito scalciare nella mia pancia, di cui non ho sentito il primo pianto di saluto alla vita, che non ho guardato con sollievo ed amore dopo il dolore lacerante del parto.
Come sarà questo bambino?
Ed io, come sarò per lui?
Cosa attirerà il suo sguardo?
Il mio viso? I miei occhi?
Il mio sorriso timido ed impacciato?
Si farà abbracciare? Piangerà? Mi amerà subito?
O non riuscirà a farlo mai?
Guardo le altre due donne e nella loro espressione credo di vedere la m ia, forse percepisco le loro emozioni, che sono le mie, forse mi giunge la loro paura, la stessa che sto provando io. Ci scambiamo sorrisi con i quali in realtà ci stringiamo in un abbraccio disperato di solidarietà, di comprensione, di tacito accordo. In questo modo ognuna di noi augura all’altra ciò che vorrebbe sentir dire a se stesa…che il futuro di questa scelta sia come un arcobaleno, grande, gigantesco, i cui colori possano rappresentare le più belle emozioni della vita….
La porta si apre.”