La cerimonia di premiazione si è svolta mercoledì 15 dicembre 2021 presso l'aula magna "Giorgio Mazzini" dell'Istituto Superiore Antincendi in via del Commercio 13 in Roma. La cerimonia di premiazione
Nel corso della cerimonia di premiazione è stata presentata l'antologia del premio, intitolata "Oltre il confine della paura, trentatre storie di resilienza", una raccolta dei migliori racconti presentati in questa edizione del premio.
Motivazione del primo classificato
Il premio è stato conferito per la peculiare originalità del racconto che vede soggetto narratore e protagonista un monumento, sì proprio un monumento, dedicato ad un vigile del fuoco, mirabile esempio di coraggio e abnegazione che gli costò la vita in una impegnativa operazione di salvataggio di spettatori, messi in grave pericolo da un improvviso incendio in un teatro.
La sequenza degli eventi, dei pensieri e delle emozioni, intrisa della paura e del coraggio di un vigile del fuoco addetto alla sicurezza della rappresentazione teatrale, è narrata con ritmi intensi, incalzanti, degni di un film d'azione, con un passaggio estremamente rapido da una situazione di ordinaria sicurezza ad un tragico scenario di un "teatro che brucia, simile ad una nave che affonda".
In tale contesto, alla strategia operativa, necessaria a fronteggiare una situazione di pericolo collettivo, si accompagna la dimensione umana, ragionevole ed intimistica di chi ha scelto "un mestiere prestigioso, un lavoro per gente tosta, dove c'è da sfidare il fuoco e salvare le persone", come si legge testualmente nel racconto.
Quell'uomo, quell'eroe, quel "pompiere", protagonista dell'episodio raccontato, purtroppo non c'è più, ma c'è un bel monumento in una piazza cittadina, tra colombelle in volo e bambini che giocano, a ricordare quello che hanno fatto, in un glorioso passato, che fanno ogni giorno senza clamore e che faranno anche domani, al servizio della collettività, i nostri amati vigili del fuoco (Alberto Bordi).
Il MONUMENTO di MATTEO CAPORIONI
Venite colombelle! non esitate, posatevi amiche mie, c’è posto
per tutte: sulle spalle, sulla testa, sul mio braccio proteso
in avanti, che mannaggia non riesco a metterlo giù, vorrei
tanto poterlo riposare un po’. Eh... beate voi, che potete
volare. Se fossi stato capace di volare anch’io ora non mi
troverei qui, a guardare sempre nello stesso punto, a farmi
cucinare dal sole e sferzare dal vento e dalla pioggia. Se
almeno nevicasse qualche volta, è così bella la neve. Il
monumento mi hanno fatto, a me, che nemmeno lo volevo fare
tanto il pompiere. Lo sono diventato così, quasi per caso,
avevo bisogno di un lavoro, uno qualsiasi, per vivere. Certo mi
era sembrato allettante: si trattava di un mestiere
prestigioso, un lavoro per gente tosta, c’era da sfidare il
fuoco, salvare le persone. E’ stato quando ho iniziato ad
addestrarmi che ha cominciato a piacermi sul serio: non era per
niente male forgiare il proprio corpo con l’attività fisica,
utilizzare quelle attrezzature sofisticate, pilotare quegli
stupendi veicoli. Poi, dopo aver preso servizio effettivo, ho
iniziato a provare quella sensazione di appagamento e
soddisfazione che si sente quando la sorte degli altri può
dipendere dalle tue azioni. Di contro, la sofferenza e la
disperazione delle persone colpite da ogni sorta di disgrazia,
dai piccoli eventi avversi fino alle più strazianti tragedie,
provocavano in me una profonda angoscia. Con lo scorrere del
tempo, anche un impiego così particolare non ha potuto
sottrarsi alla legge che conduce inevitabilmente qualsiasi
lavoro a diventare, nel bene e nel male, un’abitudine. Così
tutto ha iniziato a susseguirsi con una certa regolarità: la
vita di caserma, gli incidenti stradali, gli interventi della
più svariata natura e rilevanza, le calamità naturali e,
naturalmente, gli incendi, quelli piccoli, ma anche quelli
grandi, molto grandi. Ricordo che che mentre l’autopompa
correva a sirene spiegate verso un incendio avevo una paura del
demonio. Per fronteggiarla pensavo ai fanti della Grande guerra
di cui mi parlava mio nonno quando ero bambino, quando
balzavano fuori dalle trincee consapevoli di andarsi a
sfracellare contro il fuoco delle mitragliatrici nemiche. Mi
chiedevo se in situazioni del genere parlare di paura avesse
ancora un senso, o se si trattasse di qualcosa che andava oltre
la paura stessa, verso una dimensione intimamente
imperscrutabile, talmente prossima alla morte da confondersi
con essa. Nel frattempo si arrivava sul posto e la paura
scompariva quasi del tutto, travolta dalla necessità di agire
in fretta e bene. La gente guardava a noi pompieri con
riconoscenza e profondo rispetto, questo mi faceva provare un
certo imbarazzo, mi sentivo a disagio nei panni del superuomo,
del presunto eroe, in fondo stavo solo facendo ne più ne meno
che il mio lavoro, quello per il quale venivo pagato a fine
mese come qualsiasi altro lavoratore. Poi c’erano le vigilanze
antincendio nei locali di pubblico spettacolo: teatri, mostre,
fiere, concerti e rappresentazioni di ogni genere. Svolgere
quel tipo di attività mi piaceva veramente tanto. Se non avessi
fatto il pompiere non avrei mai avuto l’opportunità di
assistere a cotanta meraviglia. Il teatro era il mio preferito.
Mi presentavo con l’uniforme impeccabile, e una volta eseguiti
i controlli con scrupolosa dedizione, prendevo posizione
assumendo una postura dignitosa e composta, vagamente marziale,
e finalmente, mi godevo lo spettacolo. L’opera mi faceva
impazzire: era tutto così magico, tutto così, come dire...
straripante di sentimento. A volte faticavo a trattenere le
lacrime. C’erano i soprani: quelle donne invariabilmente
innamorate e tradite che alla fine morivano sempre. Violetta,
Aida, Carmen e la Tosca, con quel Mario Cavaradossi che canta
“...l’ora e fuggita e muoio disperato...” non mi stancavo mai
di ascoltarla. E’ stata una di quelle sere che è successo. Me
ne stavo lì in galleria, all’estremità sud del corridoio a
ferro di cavallo presso una di quelle posizioni per solo
ascolto a godermi rapito il Requiem di Mozart. Di fronte a me
sedevano due coppie di anziani, beatamente abbandonati a quelle
note di straordinaria bellezza. All’improvviso una forte
esplosione ha spezzato l’incanto. Le grida, il buio, il fumo,
le fiamme; una confusione indescrivibile. Dopo i primi attimi
di stupore e stordimento ho iniziato a guardarmi attorno ed ho
incontrato gli sguardi dei quattro anziani, erano tutti rivolti
verso di me. Quegli occhi sgranati, intrisi di puro terrore,
sembravano supplicarmi di dare un senso a ciò che stava
accadendo. Mi sono rivolto a loro cercando di tranquillizzarli,
gli ho detto che li avrei guidati fuori da quell’inferno e che
i mie colleghi sarebbero presto giunti in forze a risolvere la
situazione. Abbiamo iniziato a percorrere il corridoio invaso
da un fumo sottile, illuminato dal tenue bagliore delle luci
d’emergenza. Aperta la porta che dava sulla scalinata ho dovuto
constatare che quella via non era percorribile: il fumo nella
rampa era troppo denso, evidentemente l’evacuatore si era
bloccato e non lo faceva defluire. Mi sono voltato verso i
quattro e gli ho sorriso cercando di nascondere la mia
preoccupazione. I due signori si occupavano amorevolmente delle
loro compagne sussurrandogli parole di conforto e
rassicurazione. Avrei voluto prendermi cura di ognuno di loro
con quella stessa passione, ma le cose si stavano mettendo
male: eravamo bloccati in quel corridoio dove fumo e calore
aumentavano rapidamente. Sentivo dentro di me la paura dilagare
come una melma scura e vischiosa. Non era la solita paura,
quella che normalmente si prova di fronte al pericolo, si
trattava di qualcosa di diverso, qualcosa di più sottile, più
profondo: era la paura di non essere all’altezza, di deludere
quelle persone fragili e indifese che vedevano in me l’unica
possibilità di salvezza. Ho chiuso per un attimo gli occhi, ho
aspettato il fischio dell’ufficiale, e sono saltato fuori dalla
trincea. Riaperti gli occhi mi sono imposto di sgombrare la
mente per lasciare tutto lo spazio necessario alla ricerca di
una possibile soluzione. Ma certo! Ora ricordavo: in fondo al
corridoio attraverso una porticina si accedeva ad un vano da
cui una scaletta verticale portava al ballatoio sopra il
palcoscenico. Quella era la via. Una delle signore non era in
grado di salire da sola, allora me la sono caricata sulle
spalle “alla pompieristica”, una tecnica che avevo imparato al
corso. Nel farlo ho cercato di usare la massima delicatezza per
non offendere il pudore di quel corpo sottile e leggero, lei ha
lasciato fare passivamente, manifestando una totale fiducia. Il
ballatoio sopra le scene, con le sue passerelle di legno
scricchiolante e le sue funi di canapa odorosa di muffa mi
aveva sempre fatto pensare al ponte di un bastimento. Ora ero
lì, che mi arrampicavo con un’anima sulle spalle su quei pioli
come fossero le griselle tra le sartie dell’albero di un
veliero. Un teatro che brucia è come una nave che affonda, mi
sono detto. Per qualche ragione là non c’era ancora molto fumo,
ma il palcoscenico era in fiamme e bisognava trovare al più
presto una via di fuga, era necessario cercare in qualche modo
di uscire all’esterno. Scendere ai piani inferiori era
impossibile. Tuttavia da dove ci trovavamo si poteva
raggiungere il tetto, e una volta sul tetto sarebbe stato
ragionevole sperare che le squadre di soccorso ci portassero in
salvo da lì. Ancora una scala, una botola, e finalmente eravamo
fuori. Ci siamo messi a percorrere il camminamento perimetrale
del tetto, colonne di fumo si sprigionavano un po' dappertutto,
di tanto in tanto mi fermavo per guardarmi attorno, finchè a un
certo punto ho visto ciò che tanto speravamo di vedere: una
squadra di pompieri era riuscita ad appoggiare una scala sotto
il parapetto del camminamento. Occorreva ancora uno sforzo: una
alla volta ho aiutato quelle persone ormai stremate a
scavalcare il parapetto e poggiare i piedi sulla scala dove i
colleghi erano pronti a riceverli. Era fatta, erano tutti in
salvo. Almeno fino a quel momento ero stato in grado di
compiere con zelo ed efficacia il mio dovere, potevo essere
orgoglioso. Non saprei dire se siano state più la stanchezza o
quel pizzico di euforia dato dalla riuscita dell’impresa a
farmi perdere la concentrazione e scavalcare quel parapetto con
troppa leggerezza. Un piede in fallo, la mano che non ha ancora
agguantato il corrimano e sono caduto nel vuoto. L’ultima cosa
a cui ho pensato mentre precipitavo è stata la Tosca, gettatasi
per amore dalle mura di Castel Sant’Angelo. E ore eccomi qui:
al centro di questa piazzetta. Do ospitalità agli uccelli e
guardo le persone che mi passano davanti. Mi piacciono
sopratutto i bambini che giocano e le coppiette di innamorati.
Sul piedistallo che mi sostiene c’è una targa, dev’esserci
scritto qualcosa tipo “...esempio di coraggio e abnegazione. A
futura memoria...” E pensare che nemmeno lo volevo fare tanto
il pompiere.