Abolito con un decreto del 1945 il titolo onorifico oggi vive nel comune sentire quale segno di rispetto per i prefetti “eccellenti” nella proficua dedizione alla loro mission istituzionale
Ogni tanto i corridoi, le stanze, le riunioni ufficiali, gli incontri informali all’interno del palazzo del Viminale echeggiano ancora dell’inconfondibile suono prodotto da un “comandi eccellenza” che sembra tagliare di netto lo spazio ed il tempo in cui la frase è pronunciata. Ed allora è il caso di chiedersi se viva ancora il titolo di eccellenza, destinato per convenzione a chi ricopre la carica di prefetto. Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 4 del R.d. 16 dicembre 1927, n. 2210 il titolo di “Eccellenza” veniva riconosciuto alle alte cariche dello Stato, comprese nelle prime quattro categorie dell’epoca. Nello specifico l’appellativo competeva alle massime autorità dello Stato fino ai magistrati, ai funzionari ed ufficiali con grado odierno di presidente di sezione della Corte di cassazione, di dirigente generale o prima fascia superiore, di tenente generale e incarichi corrispondenti.
Il Decreto luogotenenziale 28 giugno 1945, n. 406 ha abolito l’appellativo che pertanto non può oggi essere usato negli atti formali aventi ad oggetto autorità italiane.
Non ne risulta tuttavia vietato l’uso di cortesia nell’ambito dei rapporti personali verbali e nella corrispondenza a carattere privato, secondo una consuetudine ancora piuttosto diffusa. In ambito internazionale l’appellativo è tuttora rivolto validamente ad autorità di governo ed ambasciatori stranieri e nel mondo ecclesiastico ai vescovi.
Infatti l’ Eccellenza, abbreviato in S. E., è un predicato onorifico tipico delle convenzioni diplomatiche e nella Chiesa cattolica. Esso è impiegato per vescovi ed arcivescovi con l'esclusione dei cardinali cui spetta il titolo di eminenza. Nel cerimoniale diplomatico, si riserva tale predicato agli ambasciatori residenti. L'appellativo è anche utilizzato, nelle cerimonie ufficiali, per caratterizzare un capo di Stato o un ministro. Anticamente tale titolo, utilizzato con l’iniziale maiuscola, era dato ad imperatori, re, pontefici, per essere poi esteso ad alti funzionari, nobili, vescovi ed alti prelati.
Il Prefetto di Roma Carlo Mosca in passato ha analizzato questo appellativo carico di storia e di prestigio in un suo scritto, sottolineando come la sua utilizzazione riferita ai prefetti, corrispondesse ad un sentire comune della gente in segno di rispetto nei confronti di una figura istituzionale apprezzabile per competenza professionale e dedizione nell’incarico ricoperto.
Secondo l’autore il sentirsi conferire tale titolo significa avvertire non solo la responsabilità, ma anche il dovere di essere eccellenti e di vivere tale stato di eccellenza al servizio della causa comune. In tale senso l’appellativo non assume il significato elitario di chi si distingue al fine di dominare o comandare gli altri, ma “deve assumere il significato di chi esprime una preminenza di valori, di doti e di capacità intellettuali, morali, professionali e umane da mettere al servizio dell’interesse generale”
In questa ottica il titolo di eccellenza va conquistato sul campo, orientando a condotte e risultati eccellenti il proprio essere ed il proprio agire, svolgendo la propria professione in maniera eccellente, esprimendo uno stile di vita eccellente. Ed è in questo senso che bisogna intendere il senso piu genuino delle élite dirigenziali delle pubbliche amministrazioni: dietro il titolo di eccellenza bisogna vedere “massimo impegno, totale servizio, elevato senso dello Stato e del bene comune”. Questo il significato più moderno e più apprezzabile di tale appellativo.