Secondo premio a Luigi Pipitone con LO STATO DEVE VINCERE. Terzo premio ad Andrea Angelini con IO SONO SOLO UN BAMBINO, struggente richiamo alla strage della funivia del Mottarone. Menzioni speciali per i racconti di Daniele Panza, Andrea Capalbo e Stefano Melmeluzzi
La cerimonia della premiazione
Il Monumento, di Matteo Caporioni, racconto vincitore del primo premio
Luigi Pipitone vincitore del secondo premio per il racconto: LO STATO DEVE VINCERE – Una normativa da rivedere
Tutto iniziò un turno di notte di fine autunno, in un distaccamento all’ombra del Vesuvio. Il capo prese la chiamata verso le ventidue. Disse.
Era la quarta volta in un mese, da quando ne avevano ordinato il sequestro per un sospetto traffico di rifiuti industriali. Partimmo a razzo. Saremmo arrivati in una decina di minuti.
Marco guidava a sirene spiegate. Giampiero sbraitava istruzioni che a malapena capivo. Nel Defender, dietro di noi, Vincenzo e Stefano richiedevano via radio l’intervento della Botte. Nel caos distinsi un rumore nuovo aggiungersi ai tremila ben noti. Un clacson infuriava sotto il finestrino. Sul filo della corsia opposta una berlina correva incollata al fianco dell’APS. Urlai verso i posti di guida. Il tempo di finire la frase e venimmo sorpassati dal corteo di mezzi. Ci tagliarono la strada, sbarrarono l’intera carreggiata. Il Volvo inchiodò duro. Venni proiettato sulle bombole, salvai i denti per miracolo. Sentii lo scatto delle portiere anteriori e grida
confuse in dialetto partenopeo. Alzai lo sguardo. L’autista teneva le mani sollevate, il sedile al suo fianco era vuoto. Lo sportello alla mia destra venne spalancato. > Nel buio tagliato dal blu dei lampeggianti due ceffi mi fissavano a pistole spianate. Smontai dal camion. Mi
bloccarono i polsi con fascette da elettricista. Mi condussero ad un furgone, mi spinsero dentro. Giampiero e Marco stavano già lì. Un minuto dopo venimmo raggiunti dai colleghi del mezzo di supporto. Il minivan si mosse. Le menti erano paralizzate. Il tragitto fu scomodo e breve. Ci tirarono via. Ci ordinarono di sedere a terra. Eravamo in una specie di hangar. Divelsero le radio da APS e Defender, le gettarono ai nostri piedi. Giampiero prese coraggio. <
discarica sta bruciando, dobbiamo correre a spegnerla.>> Un tizio elegante in completo scuro si smarcò dagli altri.
L’uomo non fece una piega, infilò due dita nella tasca e tirò via un foglio. Un brivido percorse il navigato pompiere. > Sogghignò e continuò a leggere. Il nominato serrò la mascella. Voltò facciata.
Stefano non se la tenne. Ma un tirapiedi venne avanti veloce e gli fracassò lo zigomo col calcio del fucile.
Ed infine guardò me. Accese una sigaretta.
Giampiero era scosso.
Ribatté quello sicuro di sé.
Sbirciò l’orologio.
Sorrise.
Vincenzo aveva paura. Pestò la cicca e sputò.
Un’ora più tardi il telefono dell’uomo elegante squillò. Ci legarono svelti le caviglie. Ci tapparono la bocca. Ci ficcarono sacchi di stoffa sulla testa. Le luci si spensero.
Seguì il rombo dei motori e lo stridio delle gomme sul cemento liscio. Mugugnammo versi incomprensibili. Provammo a dimenarci, ma le fascette tennero e ci rassegnammo. Rimanemmo lì come salami. All’alba udimmo i primi rumori, poi le voci: “Polizia!” L’incubo era finito. O perlomeno, era ciò che credetti allora. Mi accompagnarono a casa. I Carabinieri piantonarono l’ingresso giorno e notte. Il mattino seguente venni scortato in Centrale. Riunione nell’ufficio del Comandante. Oltre a lui era presente la squadra al completo, un Colonnello dei Carabinieri, un
Dirigente della Polizia, un signore in giacca e cravatta. Esordì il Comandante rabbuiato, ed indicò il tizio in borghese. Le parole del magistrato mi si
scolpirono nel cuore. Parlò della pericolosità del clan che ci aveva sequestrati. Dei rischi che correvano le vite nostre e quelle dei nostri familiari. Ci fecero uscire uno per volta. Non rividi, né seppi mai più nulla dei miei colleghi. Per una settimana dormii dai Carabinieri. La Commissione Centrale mi aveva inserito nel Programma di
Protezione Testimoni per crimini connessi alla camorra. “Lo Stato deve vincere”. Venni condotto in un borgo di mille anime sperduto tra le Alpi, in una stamberga di pietre e pali in legno. Faceva freddo. Un agente del NOP, Nucleo Operativo Protezione, mi consegnò nuovi documenti. La faccia era la mia, ma non le generalità. Ero diventato un Mario Rossi qualunque.
Il poliziotto mi vietò categoricamente l’uso di chat e social. Avrei dovuto limitare al massimo ogni relazione esterna. Se avessi avuto necessità di telefonare a qualcuno l’avrei dovuto prima riferire a lui. I miei risparmi vennero transitati su un nuovo conto. Mi disse che presto avrei ricevuto del denaro, ma la burocrazia era lenta ed io iniziai a consumare quelli. “Lo Stato deve vincere”. Un anno e mezzo più tardi iniziò il processo. Feci il mio dovere a testa alta. Mi presentai in aula e testimoniai contro sei del gruppo che ci sequestrò quella notte. La sera stessa venni ritrasferito. Nuova località, nuovo poliziotto. Mi concessero il sussidio e passarono altri quattro lunghi anni. Non avrei mai immaginato che un procedimento penale potesse durare tanto. La solitudine divenne mia amica e mia amante. Potevo uscire di casa, certo. Ma per andare dove?
Ero un fantasma. La gente del pollaio dove mi avevano sbattuto abbassava la testa se solo osavo rivolgergli la parola. Rimbambivo di vodka e televisione. Diventai un alcolizzato. “Lo Stato deve vincere”. Mi sentivo derubato della libertà. Tiravo testate allo specchio fino a sanguinare. A comando cambiavo case e città. La rabbia si fuse nell’avvilimento. Sognavo ancora di fare il Vigile del Fuoco. Le persone salvate dalle lamiere delle auto, il naspo tra le mani a dominare i roghi, l’orgoglio di vestire la divisa. Mi alzavo di scatto nel cuore della notte e mi attaccavo alla bottiglia. Caddi in depressione. Lacrime e psicofarmaci. Ingrassai trenta chili. Trovare una donna era pura utopia. Rimpiangevo le ragazze che avevo stretto tra le braccia. Le loro bocche. Le mangiate di pesce con gli amici. Le uscite in barca con mio padre. Le domeniche da mia madre. Sono trascorsi tredici anni da allora. “Lo Stato deve vincere”. Da qualche mese mi hanno sepolto all’archivio comunale a scaldare una sedia. Lo chiamano lavoro.
Il processo per il disastro alla discarica invece è tuttora in alto mare. In compenso però, il tizio elegante che ci sequestrò ed i suoi amici sono usciti di galera già da tempo. Loro liberi
di andare dove vogliono. Io di nascondermi come un ladro, ma non importa. Tra un minuto sarò libero anch’io. Ci chiamano testimoni di giustizia. Vittime due volte della criminalità.
Ostaggi innocenti di una normativa alienante e decrepita. Il coraggio di puntare il dito l’abbiamo pagato a caro prezzo. Ne è valsa la pena? Non lo so. Non vedo luci in fondo al tunnel.
“Lo Stato deve vincere”. Un giorno giurai di servire la Repubblica e le sue leggi. Beh, l’ho fatto. Anche quelle “garantiste” che hanno scarcerato i mafiosi di quella sera. Ora però ne ho abbastanza di questa eroica non-vita. Me ne vado. Dite al magistrato che il mio contributo termina qui. La vodka è finita. La sedia è sulla scrivania. La corda alla trave. Il cappio pronto per infilarci la testa. Lo Stato ha vinto. Addio.
Andrea Angelini, terzo classificato per il racconto IO SONO SOLO UN BAMBINO
"Quanto è profondo il lago, papà?"
"Tantissimi metri. Pensa che per alcuni pesci questo lago rappresenta tutto il mondo."
"E noi li vedremo i pesci dalla cima della montagna?"
"Non proprio, ma vedremo tutto il loro meraviglioso mondo."
Io sono solo un bambino di cinque anni e oggi sto facendo una bellissima gita con la mia famiglia. Ci sono la mia mamma, il mio papà, il mio fratellino e persino i nonni della mia mamma che sono venuti a trovarci in Italia da molto lontano.
In pochi conoscono il mio nome perché in fondo sono ancora troppo piccolo, ma un giorno diventerò grande e racconterò tutte le avventure al fianco del mio papà.
Stiamo per salire su una funivia, tutti insieme. E' davvero molto alta e devo ammettere che un po' mi fa paura. Ma non siamo soli, ci sono altre persone vicino a noi. Mi sorridono tutti, sapete, forse hanno capito che sono spaventato. Però non voglio che mio fratello più piccolo se ne accorga: io sono un bambino coraggioso.
E' una luminosa giornata di Maggio e tutto il mondo sembra disteso sotto i miei piccoli piedi. Che emozione andare così in alto fino a sfiorare il sole! Dicono sia la stella più calda dell'universo e nessuno ci si possa avvicinare. Sarà vero?
Io mi fido molto del mio papà: lui mi ha detto che sul Sole possono viverci solo idrogeno ed elio, che sono due gas.
Sapete, la mia famiglia mi insegna sempre tante cose, ed oggi mi ha portato in questo splendido lago che si chiama Lago Maggiore. Il nostro programma è fare un delizioso picnic in vetta alla montagna, godendoci un panorama mozzafiato.
Ho sentito la mamma dire ai miei bisnonni che una volta arrivati lassù si vedono persino altre montagne e altri laghi e, in più, mi ha promesso che attraverseremo un giardino botanico con tantissime piante che non ho mai visto.
Non è meraviglioso? Sapete? Adesso ho meno paura. "Papà, ho fame, quando saliamo sulla montagna?"
"Adesso, figliolo. La vedi quella cabina bianca e rossa che sta scendendo verso di noi e che sembra un piccolo treno volante? Bene, quella cabina ci porterà in cima. Sei pronto?"
"Sì, ma tienimi la mano papà."
Mezzogiorno è appena passato. Questa è l'ora in cui io e il mio fratellino di solito pranziamo, ma oggi bisognerà pazientare un po'. Ci aspetta un gustoso picnic in un prato magnifico dove l'erba è fresca e profumata come un tappeto di fiori.
Un signore ci apre la porta della cabina e tutte le persone che erano lì ad attendere entrano insieme a noi. Le ho contate, sono quattordici escluso me, e oltre a mio fratello c'è anche un altro bambino. Spero di farci amicizia appena scenderò dalla cabina. Magari ha voglia di giocare con me.
Si parte, finalmente!
La nostra cabina inizia a muoversi oscillando un po', d'altra parte è appesa ad un filo, ma una volta lasciata la stazione coperta si alza libera verso la montagna, puntando dritta il sole. Io mi sono subito posizionato davanti, accanto al mio papà. Dietro di noi ci sono tutti gli altri. Sono molto emozionato, sapete, mi sembra di volare. Voi avete mai preso un aeroplano? Tutto cambia aspetto, i tetti delle case e le chiome degli alberi sembrano disegni a pastello. Tutto sembra più piccolo, tranne il mio papà: lui è davvero grande e forte e il mio sogno è poter diventare come lui, un giorno.
Adagio il palmo aperto delle mie mani e la fronte sul vetro della cabina per osservare fuori. E' tutto così incredibile. Mio papà però mi fa notare che il vetro è un po' sporco e mi consiglia di non poggiarmi.
Ha ragione. Chissà quanta gente sale dentro questa cabina ogni giorno. Alla nostra destra vediamo una città specchiata sull'acqua, mentre se voltiamo la testa si scorgono tre piccole isole proprio in mezzo al lago, così belle da sembrare tre occhi verdi rivolti verso il cielo. Nel frattempo sotto i nostri piedi scorrono veloci le fronde di abeti, larici e faggi, quasi a carezzare il pavimento di questa cabina bianca e rossa che si arrampica sempre più in alto lungo la montagna.
D'un tratto sul retro della cabina si sviluppa un gran chiasso, vedo l'altro bambino indicare un punto fuori: "Guardate!"
Qualche signore si affretta a fare una foto con il cellulare, altri imbracciano la macchina fotografica. Anche il mio papà ci invita a guardare.
Al di là del vetro, sotto un grande fusto di albero, c'è un bellissimo cervo. Sta bevendo in un ruscello, quando improvvisamente solleva la sua testa dalle grandi corna verso di noi, quasi a volerci salutare.
E' difficile vedere i cervi di giorno, sapete? Di solito preferiscono spostarsi di notte, non si fidano troppo degli uomini. Alcuni uomini sono cattivi.
Il mese di Maggio per i cervi è molto speciale, perché dopo un inverno trascorso a riposare nel fondo delle valli finalmente possono raggiungere gli alpeggi in cima alla montagna, per poter pascolare e trascorrere un'estate felice tra l'erba e il sole. E' la loro meritata vacanza e dura fino a Settembre, un po' come quando finisce la scuola per noi bambini.
Mi sa che siamo già arrivati, la cabina si avvicina in una fossa di cemento. Rallenta un po'. Però nessuno si prepara a scendere. Strano.
Mio papà dice che non è questa la stazione di arrivo. Manca ancora qualche minuto e invita la mamma a restare comoda.
La cabina prende ancora più quota, ma ora quando sollevo il mento riesco a scorgere un'immensa prateria oltre il bosco infinito. Ho già l'acquolina in bocca pensando al nostro picnic.
I signori vicino a noi fanno le ultime fotografie, poi finalmente vedo qualcuno di loro che inizia a riporre la macchina fotografica nello zaino e ad infilarsi la giacca. Anche la mia famiglia si prepara: ora sì che siamo arrivati! Forse non dovevo avere paura di questa funivia. Ma io sono solo un bambino di cinque anni.
La stazione finale è qui a pochi metri da noi e vedo un signore affacciato ad un cancelletto: sarà sicuramente colui che ci apre la porta della cabina. Mio papà si raccomanda con me di non lasciargli la mano, lo stesso fa la mamma con il mio fratellino. Attendiamo ordinati vicino la porta per scendere ma... che succede? La cabina sembra bloccata. Sento un rumore. Forse viene dal tetto. Il pavimento si catapulta verso il cielo. Cadiamo tutti a terra. Adesso la cabina ritorna indietro verso il bosco, come è possibile?
Sento le persone vicino a me urlare, forte.
Adesso ho di nuovo paura.
La cabina non viaggiava così veloce, prima. Io e il mio papà non riusciamo nemmeno a rialzarci in piedi. Forse non possiamo più fare il picnic e dobbiamo ritornare in fretta verso il mondo dei pesci?
Inizio a piangere, perché il mio papà mi stringe forte. E stringe anche la mamma e il mio fratellino.
Il mio papà è davvero coraggioso e si preoccupa sempre per noi, ma adesso sembra più preoccupato per questa stupida cabina che sta tornando indietro sempre più rapidamente. Basta, voglio scendere.
Inizio a contare quanto manca e conto fino a ventiquattro.
Il mio papà quasi mi stritola, sapete? Mi fa sentire protetto.
Sento uno schianto, il vuoto nel mio stomaco. Sarà perché non ho ancora mangiato.
Ho la sensazione di cadere giù, ma per fortuna c'è il mio papà a sorreggermi. Con lui mi sento al sicuro. Non sento più nessuno gridare, dove sono finiti tutti?
C'è un gran silenzio intorno a me, e non vedo più nemmeno la cabina. Sento la terra nelle mie narici, e ho la sensazione che delle braccia mi portino via dal mio papà. Sono braccia di una persona buona, sapete, forse lo fanno per il mio bene e non per strapparmi via da lui.
Io sono solo un bambino di cinque anni e ho imparato che esistono delle persone che sacrificano la loro vita per quella degli altri. Spesso indossano una divisa dalle bande gialle e un elmo in testa, ma non sempre. Il mio papà ad esempio è uno di loro, anche se non ci ha mai lavorato insieme. Se lui fosse qui ora, li ringrazierebbe uno ad uno per essersi presi cura di me quando la nostra cabina è precipitata dalla montagna.
Se oggi posso raccontare la mia gita al Mottarone, è solo grazie al mio papà. Lui ha fatto una scelta, mi ha dimostrato che l'amore è più forte della paura, e che la paura è un sentimento quasi naturale, umano. Sapete, anche dopo un'esperienza del genere io oggi ho ancora paura. Ho paura della malvagità degli uomini, ho paura di coloro che non rinunciano mai a nulla e non rendono mai felici gli altri. Adesso capisco perché è così difficile vedere i cervi di giorno.
Io sono solo un bambino di cinque anni e ho già perso le persone più importanti della mia vita. Ho però imparato attraverso l'abbraccio del mio papà che l'amore è l'unico filo che non si può mai spezzare.
Sapete, Maggio è il mese in cui nascono i cerbiatti. Le loro mamme durante il giorno li lasciano sempre da soli, nascosti nelle radure. Vanno a cercare il cibo per loro e ad allontanare i predatori che vogliono fargli del male. La sera poi ritornano e dormono sempre tutti insieme.
Me lo ha raccontato il mio papà sulla funivia, non è fantastico?
(Stresa, 23 Maggio 2021)
Daniele Panza, menzione speciale per l'originalità del racconto: L’ETERNO FUOCO DELL’ARTE
Amilcare Rossetti era un Funzionario del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.
Personaggio dinamico, attivo, zelante fino allo stacanovismo puro, era la propaggine vivente del suo taccuino liso e velato, che soleva consultare con metodica ritmica, scandita da pause piuttosto brevi. Le numerose annotazioni assomigliavano a fili scuri e aggrovigliati, poco leggibili, che solamente lui sapeva interpretare. Su una delle pagine terminali però, campeggiava il rosso brillante di una memoria:”Visita al Museo MAGA di Gallarate”. Non vi era mai stato! Ripeteva come un mantra lo scritto di quel desiderio inevaso, ed ogni volta si incupiva, replicando il solito gesto liberatorio con cui, stringendo il nodo della cravatta opaca come il suo blocknotes, recuperava un atteggiamento dignitoso e disinvolto.
Amava appassionatamente l’arte, la pittura in particolare. L’amava come si può amare la patria o la squadra del cuore, di un amore istintivo, profondo, indomabile. L’amava con tutti i sensi e con
la consapevolezza rassegnata che la passione amorosa potesse esaltare, ma anche uccidere, quel sentimento. Aveva ancora vivi nella mente i ricordi di una gita didattica presso la Galleria degli Uffizi di Firenze. Il professore di storia dell’arte dispensava, da par suo, nozioni ed aneddoti, calamitando l’attenzione di tutti.
Amilcare, abbagliato da tanta bellezza pittorica, si estraniava sempre più, rinchiudendosi inconsapevolmente in un guscio invisibile che gli comprimeva il respiro.
Rimase bloccato al cospetto di un’immagine sublime che osservava assorto, come in estasi contemplativa. La “Nascita di Venere” del Botticelli gli aveva catturato i sensi,
gettandolo in uno stato confusionale. La rappresentazione estetica gli provocava angoscia e smarrimento, scatenando una violenta sintomatologia vertiginosa. Uscito a fatica dalla Galleria, camminava esausto, col timore di cadere. Era ancora sconvolto dalla terribile sensazione di come
quella soave bellezza da osservare avesse potuto, al contrario, scrutare nell’animo di lui, portando alla luce le emozioni più profonde insieme ai dubbi mai risolti. Gli sembrava assurdo che quel dipinto avesse la forza di potergli cambiare la vita ed il proprio modo di osservare la realtà.
Quelle sensazioni, strane ed inquietanti, lo accompagnarono per molto tempo; poi se ne fece una ragione, nascondendole in un angolo remoto del proprio subconscio. La visita al Museo MAGA rimaneva pur sempre una priorità, che non riusciva a soddisfare a causa dei numerosi impegni assunti. Ancora non aveva realizzato che il subconscio opponeva resistenza al desiderio, sopprimendolo sul nascere. Ci pensò il caso a disegnare le premesse perché si concretizzasse finalmente quel fantastico sogno. Erano circa le 14,30 del 14 febbraio del 2013, quando presso la Sala Operativa del Comando dei Vigili del Fuoco di Varese scattò l’allarme per un incendio divampato presso la struttura museale del MAGA di Gallarate. Ironia della sorte, Amilcare era di turno in sostituzione di un collega, impedito da problemi di salute, e finalmente avrebbe potuto avere accesso al tanto agognato Museo. Si preoccupò che venissero attivate tempestivamente le squadre di Busto Arsizio e di Varese; poi, equipaggiatosi con i dovuti crismi, partì per dirigere l’intervento. Pensava, lungo il tragitto, a quanto fosse beffardo il destino: aveva forzato la sua decisione, o, forse, lo stava spingendo verso la risoluzione della sua annosa incertezza. Giunto sul posto, lo scenario si presentò drammatico. L’incendio aveva interessato la copertura dell’edificio, da cui occhieggiavano sinistramente violente lingue di fuoco, mentre numerosi e vividi focolai punteggiavano in modo minaccioso la struttura del tetto.
Amilcare si occupò rapidamente di acquisire notizie in merito all’evacuazione ed allo stato di salute delle persone, e, parimenti, al salvataggio delle opere d’arte, impegnandosi al contempo a coordinare, con la consueta perizia, l’intervento tecnico di soccorso. Il travolgente desiderio di entrare nella struttura interessata dalle fiamme era soffocato da un subdolo senso di paura: si stava
scatenando il recondito timore di incappare nuovamente in quello strano episodio già vissuto da adolescente nella Galleria degli Uffizi. Aveva paura di aver paura. A fatica, entrò nell’edificio. Alquanto frastornato, Amilcare diede fondo a tutto l’orgoglio che in quel momento lo animava. “In fin dei conti” – si domandava – “cosa può accadermi?” In altre occasioni analoghe, aveva sempre saputo superare ogni tensione, anche se, questa volta, si aggiungeva l’angoscia di veder perduta qualche opera d’arte. Pensò, allora, al peggiore scenario verificabile, facendo allenamenti mentali di pessimismo e ricorrendo all’esercizio della “praemeditatio malorum”. Si preparava al peggio, senza per questo farsi travolgere. “In fondo” - rifletteva - ”nessuna vita umana è andata perduta e le opere d’arte sono quasi tutte in salvo”.
Nel frattempo, l’intensità del fuoco sembrava piano piano placarsi mentre i volontari ed i cittadini del luogo contribuivano alacremente al salvataggio delle opere d’arte. I Vigili del Fuoco avevano ormai arginato la propagazione delle fiamme, riducendo al minimo i danni.
Amilcare aveva sfidato i suoi tabù, cosciente che il valore istituzionale andava salvaguardato oltre ogni remora. Si stava disimpegnando con buona lena quando il suo sguardo si posò su una figura femminile impressa su una tela dai colori intensi. Era la “Donna in Viola” di Bruno Cassinari, che aveva avuto modo di visionare, in passato, in una galleria virtuale. La vigoria dei toni cromatici componeva un’immagine già vissuta nella sua coscienza. Ogni tratto, ogni colore, gli lasciava strane
sensazioni, che lo spingevano fuori dalla dimensione delle cose.
Quella creatività prorompente conteneva una forza incontrastabile, pur nella fragile fattezza del soggetto femminile. Fu soggiogato ancora una volta. Il tormento e l’inquietudine, che erano nuovamente emersi dentro di lui, sembravano addirittura rivitalizzarsi e rinvigorirsi rapidamente a causa dell’aura solenne che aleggiava in quel luogo, resa ancora più opprimente dal tetro echeggiare del crepitìo dei focolai in copertura. Evidentemente, l’iconografia femminile alimentava in lui l’interrogativo sul perché la stirpe umana continuasse imperterrita il proprio cammino e quale ne fosse lo scopo. L’emozione improvvisa riproponeva ancora quel misterioso enigma e fu allora che gli tornarono in mente le parole del professore di storia dell’arte pronunciate nel corso di quella fatidica escursione didattica: “la funzione primaria dell’arte non è l’emozione che genera, ma è espressione del pensiero dell’artista”.
Questa riflessione gli aveva procurato la chiave di lettura del proprio disagio; e quella chiave l’aveva in sé, ma non era mai stata adoperata. La sua vita era stata, fino a quel momento, esclusivamente dominata dalle emozioni. Si era reso consapevole che la bellezza può anche incutere paura, può annichilire e ipnotizzare la mente, rendendola vittima di un potere sconosciuto ed alienante. Capiva che stava personalizzando il pensiero dell’artista e che la sua emotività era solo frutto di una elaborazione individuale, dissociata dall’idea autentica dell’autore.
Fu allora che, con uno scatto imperioso, ghermì il quadro strappandolo dalla parete, portandolo in salvo. Egli, come ricambio al suo apporto operativo, aveva ricevuto qualcosa in più. Si era completamente liberato di un ostacolo invisibile che stava cambiando la sua esistenza.
Alla passione per l’arte, oggi Amilcare aggiunge anche la gratitudine. E quella sera stessa, una volta rincasato, tirò fuori dal taschino il suo block-notes ancora più logoro, annotando in modo chiaro e leggibile:”Il sacro fuoco dell’arte alimenta il nostro spirito e trionfa sulle brutture umane”.
NOTA DELL’AUTORE
Il racconto si ispira ad un evento reale (incendio della copertura del museo MAGA di Gallarate (VA) in data 14 febbraio 2013. L’autore era Funzionario di guardia presso il Comando dei Vigili del Fuoco di Varese), ma il personaggio di Amilcare Rossetti ed i contenuti del racconto sono frutto della fantasia dell’autore. Pertanto, ogni riferimento a persone, fatti, luoghi o cose, esistenti o esistiti, è da considerarsi puramente casuale, involontario, quindi non perseguibile.
Il dipinto “Nascita di Venere” di Sandro Botticelli è conservato presso la Galleria degli Uffizi di Firenze. Il dipinto “Donna in Viola” di Bruno Cassinari è conservato presso il Museo MAGA di Gallarate(VA).__
Andrea Capalbo, menzione speciale per la forma e lo stile del racconto LA CONFESSIONE
Al mondo esistono tre tipi di persone.
Ci sono gli incoscienti, quelli che per la paura hanno un filtro a maglie tanto larghe da esserne attraversati senza risentirne. Mio nonno, pompiere della prima ora ed eroe nazionale, era uno di essi. Poi vengono quelli che le loro paure le guardano in faccia, che le superino o che ne restino sconfitti non è così importante: sono i cosiddetti coraggiosi o, più semplicemente, gli onesti. Mio padre, storico Capo Squadra di Ostiense, era uno di questi.
La terza categoria è infida: essa è fatta da coloro che dalle loro paure fuggono; sono i codardi, i vili,
gente costretta a fuggire costantemente via da loro stessi, in una corsa che gli toglie il fiato e che si
alimenta dell’illusione di poter seminare le proprie ombre. Io, si proprio io, appartengo a questa
categoria, anzi vi appartenevo fino ad ora, sinché non ho deciso di confessare tutto; non a Dio, sarebbe troppo facile, ma alla mia lucida coscienza, temibile ed unico giudice del mio operato.
Mi chiamo F. M. faccio il Vigile del Fuoco, avrei potuto fare decine di altre cose nella vita ma, a dirla tutta, non ho mai avuto altra scelta. Non che qualcuno mi abbia mai spinto in maniera troppo diretta, questo no, ma con mio padre Capo Squadra e mia madre all’ufficio personale del Comando di Roma, c’era poco spazio per altro. Nel salotto di casa poi, sopra al divano di pelle verde, troneggiava il fotoritratto in falsi-colori di mio nonno: “Vigile A. M.”, un eroe della seconda guerra mondiale, “patriota generoso ed instancabile”, uno dei tanti figli d’Italia sacrificati al culto della patria. E fu così che crebbi nel mito del pompiere che “pura non ne ha”. Sin da bambino, prima di andare a letto, aspettavo con ansia il tintinnio dolce delle chiavi alla porta di casa e correvo, pazzo di gioia, ad abbracciare il mio papà che ritornava dalle sue mirabolanti avventure in giro per la città, delle quali pretendevo il resoconto preciso e lui, senza mai deludere le mie aspettative, si prodigava nei suoi racconti di come avevano aperto quella porta o salvato quel cane.
Mio padre: un omone alto 1 metro e 90 cm, per 110 kg, con due spalle grosse così e la mano che
ricordava più un mattone che la frastagliata terminazione del braccio. Io no, non sono mai stato come lui, ho ereditato la morfologia materna, assomiglio molto ai miei zii: smilzi e corti, industriosi
gesticolatori, semi-calvi già a 20 anni, con dita tanto gracili quanto calme e precise. Abilissimi calzolai erano i miei zii, ma passione per le scarpe che nella mia famiglia si è estinta con loro. Io, unico nipote, non amavo il lavoro manuale e l’odore della colla mi ha sempre disgustato. E poi ridevano poco i miei zii, proprio come me.
Insomma, tutta la mia vita ruotava intorno ai Vigili del Fuoco: i colleghi di mio padre erano per me
come degli zii affettuosi (loro si che lo erano!) e i loro figli i cugini che non avevo mai avuto. E si stava sempre insieme, anche a Natale e a Pasqua, proprio come una vera famiglia. Ricordo ancora che noi bambini, quando i grandi se ne stavano a far caciara in sala mensa, ci addentravamo nell’autorimessa per fare i pompieri, specchiandoci reciprocamente nelle visiere degli elmi dei nostri genitori. La stessa immagine che anni dopo avrei visto riflessa in uno degli specchi negli enormi bagni delle Scuole Centrali Antincendio: la casa dei pompieri aveva finalmente spalancato le sue porte sul mio luminoso futuro.
Ma la luce di quell’inizio lasciò ben presto il posto alle tenebre che mi avvolsero dopo essere salito sulla scala aerea. Non potrò mai scordare quella prima volta, dovevo sembrare un geco mentre salivo appiccicato ai gradini e l’istruttore, da sotto, mi ricopriva di improperi irripetibili. Durante l’ascesa, ad un certo punto ho avvertito un leggero tremolio dei muscoli delle gambe che dopo qualche gradino era diventato un fremito incontrollabile tanto che temetti di cadere come un sacco di patate proprio lì, nel mezzo della salita. Strinsi la presa delle mani ma quando il fiato diventò troppo corto non aspettai provenire dal basso il comando di “scendere” e, in preda ad un sincero terrore, iniziai la mia fuga salvifica verso terra.
Ho stretto i denti fino alla fine del corso non confidando le mie paure a nessuno, tenendo tutti i miei
compagni a distanza e mostrandomi sfuggente e solitario, fino a diventare aggressivo quando qualcuno osava invadere il mio spazio; è stato come mettere un cartello “attenti al cane”, né più né meno. Ho preferito passare per incapace piuttosto che svelare il mio stato d’animo: ma quanto mi avrebbe fatto bene urlare sotto al K1 “IO – HO – PAURA – CAZZO!” invece del rituale “LO GIURO!”; ma urlare una bugia è più facile che sussurrarla a voce bassa, nessuno noterà le inflessioni o tremolii nel tono della voce; un urlo è un urlo e poi quando con te urlano altre 600 persone quello che accade è che ti si gela il sangue nelle vene dall’emozione: chi vuoi che ci faccia caso se hai urlato forte o piano. E poi, quel giorno, il giorno del giuramento, ci fu l’unico abbraccio che mio padre mi concesse da quando smisi di essere un bambino ma non ne godetti neanche per un secondo perché, mentre ero stretto a lui, il mio unico pensiero era quello di trovare un via d’uscita da quel lavoro che ancora prima di iniziare mi stava già soffocando.
E il peggio doveva ancora arrivare: al Comando di Padova, la mia prima assegnazione, per la prima
volta conobbi l’odore fresco della morte brutale e quello putrido di quella dimenticata in un
appartamento del centro. Ho visto la disgrazia portata dall’acqua e dal vento e quella piovuta sulla
famiglia di quel ragazzo tirato su dal canale; ho vissuto le notti insonni, i risvegli tachicardici, la
frustrazione per un fallimento, i tanti, troppi “poteva essere mio figlio”. Ho visto tutto quello che mio padre mi aveva nascosto, epurando i suoi racconti degli odori nauseabondi e delle immagini più
terrificanti. E’ stato allora che il modo reale si è dispiegato davanti ai miei occhi ancora ingenui come una verità accecante. E l’ho odiato per questo mio padre, perché sono cresciuto con l’idea che questo fosse un lavoro “pulito”: e così l’ho immaginato e così l’ho amato.
Per tutti questi anni ho scelto di vivere la mia vita come un ratto, costretto a nascondermi in ogni
fessura che il sistema mi ha offerto. In effetti la paura c’entra ma non è quello il punto, almeno non il principale. Il problema è di non averci mai fatto i conti; il problema è non aver mai ammesso la
sconfitta. E me la sono portata dietro per tutti questi anni come un cadavere putrescente sulla schiena. La mia codardia mi ha schiacciato rendendomi un inetto, un viscido leccapiedi il cui unico fine è stato quello di non finire mai più su un APS.
Con lui, con mio padre intendo, però non ho mai parlato del mal di stomaco che mi ha tormentato in
questi anni perché se è facile parlare della paura dei coraggiosi, di quelli che con la paura ci hanno fatto i conti, è complicato parlare di quella dei vigliacchi come me che invece di essa sono stati succubi. Solo dopo la sua morte ho saputo da mia madre che anche mio papà aveva avuto paura: in Irpinia, per esempio, e per la storia di Alfredino aveva addirittura pianto. Lui però poi ragionava, trovava soluzioni, calcolava i rischi diceva mia madre. Ma allora perché mai una parola con me? Forse perché nel codice degli uomini non è ammesso il lessico delle emozioni?
- Non si è mai visto un uomo che ha paura: un vero uomo si mostra fiero e coraggioso, non
indietreggia mai di un passo, è questo quello che fa un soccorritore - questo mi ripeteva sempre il mio vecchio e io per aderire a questa stupida etichetta ho buttato la mia vita nel baratro del tempo mai speso.
Ma si, in fondo è più facile incolpare lui o mia madre o il mondo intero per quello che sono o non sono diventato. Ma posso imputare a loro, alle loro aspettative, la mia vigliaccheria? No, non posso farlo, è solo a me che posso dare la colpa di non aver accettato me stesso, di non aver avuto il coraggio, si il coraggio, di mostrarmi per quello che realmente sono: un uomo che prova paura. Ergo te absolso a peccatis tua. Ora, posso finalmente sentire queste parole pervadere come un mantra la mia mente e sentirmi finalmente libero di urlare al mondo che non è più la paura a governare la mia vita. Ma bisogna pur trovare una penitenza, che diamine! Quindi che fare? Ma certo! Ecco: condannato all’oblio sia in vita che in morte. Quale altra potrebbe essere se non questa la mia penitenza? E poi, fortunatamente, la prima parte l’ho già espiata sino ad oggi. Non resta che compiere l’ultimo passo. Sul biglietto qui accanto ho scritto: “A tutti i miei cari chiedo perdono”. La vergogna che proverebbe mia madre scoprendo la verità non mi permette di aggiungere altro. Che poi, in fin dei conti, le spiegazioni non valgono niente perché ciò che realmente conta è ciò che siamo stati ed io, a pensarci bene, non sono mai esistito veramente.
Stefano Melmeluzzi menzione speciale per il valore narrativo del racconto IL VIAGGIO
Mi chiamo Salvatore e sono fermo in questo letto di ospedale dopo l’incidente di cui non ricordo molto, attaccato a macchine che mi tengono in vita mentre dormo profondamente. Medici ed infermieri mi controllano, mi lavano, mi cambiano la flebo. Spero che facciano bene il loro lavoro, perché vorrei tornare in piedi il prima possibile, per mia madre ma soprattutto per Asia.
Mia madre viene ogni giorno per tenermi compagnia: mi racconta com’è andata la sua giornata, i suoi incontri, i suoi umori. Asia, sempre vicino a me, con i suoi capelli profumati ed i suoi occhi verdi. La mia bellissima Asia.
Fu mio padre Alfredo a convincermi a partecipare al concorso per diventare Vigile del Fuoco, ripetendomi in continuazione: “Il posto fisso non te lo toglie nessuno!”.
Lo passai agevolmente, senza interrompere gli studi di ingegneria informatica che svolgevo all’università “La Sapienza” di Roma. Dopodiché mi trovai di fronte a un bivio: entrare nei Vigili del Fuoco lasciando gli studi o continuarli e rinunciare «al posto fisso», deludendo inequivocabilmente mio padre.
“Ciao amore, oggi sono proprio incazzata. Anche se in azienda cerco sempre di dare il massimo, non arriva mai una parola di conforto, mai una piccola ricompensa. Tutto è dovuto. Scusami, vengo qui per stare insieme a te e invece mi sfogo. Ora continuo a leggerti il libro: quanto mi piace Fabio Volo.”
Ciao Asia, mi piacerebbe che mi leggessi altro, ma in questa situazione va bene anche così.
Sono un tipo che si è sempre accontentato, forse per non deludere nessuno. Quando avevo circa tredici anni, al termine della scuola trascorsi l’intera estate in casa con mia madre; ero molto timido, uscivo di rado e avevo pochi amici. Mia madre mi insegnò anche a cucinare. Ricordo che dopo pranzo aspettavamo papà sdraiati sul letto, solo «per riposare la schiena e gli occhi», come ripeteva sempre mamma. Ma io non riuscivo mai a dormire, eccitato al solo pensiero di raggiungere la spiaggia di Ostia da lì a breve. Mi accontentavo di poco.
“Buongiorno Salvatore! Oggi ti lavo.” dice Carmela, una delle infermiere che si occupa di me. Lei è molto gentile, sempre gioiosa, si vede che le piace il lavoro che fa.
“Adesso vado.” dice Asia e mi dà un bacio che sa di fragola.
Sono stato in crisi per giorni, dopo aver ricevuto la convocazione per entrare nei Vigili del Fuoco: avevo paura delle novità, volevo solo continuare a studiare informatica, il mio mondo.
“Devi andare, provi se ti piace, se non va, lasci tutto. Mica sei in galera!” diceva papà.
“Ma io voglio aiutarti, soprattutto ora che hai comprato il Lounge Bar.” cercavo di farlo ragionare, ma papà era cocciuto da morire.
“Per una volta, ascolta tuo padre.” mi diceva Asia “Parti, capisci che aria tira e poi decidi. Non devi lasciare l’università, la accantoni solo per il periodo del corso. Non preoccuparti del bar, tuo padre è in gamba.” Asia non ha mai smesso di starmi accanto.
“Ciao Salvatore, oggi ti ho portato dei fiori: in questa stanza è tutto così bianco e triste…” dice mamma Aurora, poi scoppia a piangere. Mamma, non piangere, ti prego. Appena mi sveglierò, ti porterò a cena fuori, e balleremo insieme quella canzone di Vasco Rossi che ti piace tanto. Come faceva? «Vivere, è passato tanto tempo, vivere, è un ricordo senza tempo…»
Alla fine partii per il corso, anche se non molto convinto. Incontrai istruttori severissimi, le lezioni di teoria si alternavano a quelle di pratica senza sosta. Per quanto preparato al peggio, ero sottoposto a stress continuo, lo facevano per metterci alla prova. I miei colleghi di corso erano motivatissimi, molto più di me.
L’unico momento di rilassamento giungeva la sera, dopo cena. Fu in quel periodo, senza amicizie, lontano dagli affetti, che conobbi il mio fidato compagno di viaggio, l’alcool. Mi aiutava a non pensare al futuro.
“Adesso spingi.” dice Carmela.
Ma cosa devo spingere, io ci provo a muovere le gambe, ce la metto tutta, ma non succede nulla, non ci riesco!
Vorrei urlare il mio dolore a squarciagola: ma chi è in grado di sentirmi nel mio stato?
Alla fine di ogni settimana c’erano sempre due test da superare: uno teorico e uno pratico. Lo stress delle
continue prove mi stava usurando. Nessun amico con cui sfogarmi, tranne l’alcool. Lui mi capiva senza fare
storie, assecondava ogni mio capriccio. Ma una sera, ubriaco ed abbracciato a Jessica, ballerina del Night Club Paradiso, mi trovai Asia di fronte: mi aveva cercato preoccupata per ore, facendo vedere la mia foto a tutta la zona come fossi un pericoloso ricercato, fino a trovarmi. Non potrò mai dimenticare la sua faccia. Delusa scappò via piangendo.
Cercai di raggiungerla ma inciampai goffamente su una sedia, sbattendo la testa. Mi risvegliai ore dopo, in un letto sconosciuto, accanto ad una bionda tutta nuda che dormiva profondamente, con una terribile emicrania.
Anche quella volta rientrai in tempo nella Scuola di Formazione, ma in condizioni disperate. Il peggio di me lo diedi proprio quel giorno. C’era la prova della camera a fumo, dove avevamo il compito di simulare il salvataggio di una persona all’interno di una stanza invasa da fumo e fiamme. Per un soffio non causai l’infortunio di un collega. Avevo i riflessi annebbiati dai residui della sbornia della sera precedente. Fu l’ultimo di tanti incidenti.
Venni convocato dal mio superiore, il Capo Reparto Melfi: ero preparato ad una punizione esemplare. “Martinelli, il discorso sulla gravità di quello che è successo oggi lo riprenderemo più avanti. Purtroppo, le devo dare una brutta notizia: suo padre è venuto a mancare, sembra abbia avuto un infarto. Sentite condoglianze. Ha diritto a tre giorni di licenza per i funerali. Adesso può andare, ci vedremo al suo ritorno.”
Fu un colpo secco allo stomaco, non me lo aspettavo. Il Capo Reparto mi diede la notizia in modo freddo e spietato. Non volevo dare a vedere nessuna debolezza, anche se mi crollò il mondo addosso. “Agli ordini” furono le uniche parole che fui in grado di pronunciare, poi me ne andai.
“Signori, la situazione è grave ma stazionaria.” dice il Dottor Varzi “Non possiamo quantificare i danni neurologici finché non uscirà dal coma. Non vi assicuro che rimarrà in questa stasi per molto tempo. L’esperienza, purtroppo, ci dice che potrebbe peggiorare da un momento all’altro.”
Mia madre scoppia a piangere. “É colpa mia, l’ho convinto a partire, lui non voleva!” dice la mamma singhiozzando.
La presenza di Asia mi conforta. Vorrei consolarvi e dirvi che l’unico colpevole sono io e tutte le mie paure.I funerali di Alfredo si svolsero in forma ristretta, con pochi parenti ed amici. Asia venne al funerale nonostante quello che era successo due giorni prima al night club.
Ero distrutto, non accettavo la morte di mio padre, troppe cose in sospeso rimaste tra noi due, troppe parole non dette, troppe spiegazioni non date. Asia mi si avvicinò, poi mi abbracciò con imbarazzo: scoppiammo insieme in un pianto liberatorio.
“Io ci sono” disse Asia, mi diede un tenero bacio sulle labbra.
“Grazie, perdonami per quello che ho fatto. Farò di tutto per rimediare.”
Tornato alla Scuola di Formazione, fui convocato dal Capo Reparto Melfi.
“Sei espulso a causa di tutto quello che hai combinato, soprattutto all’ultimo test. Non sei adatto per il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Dovrai lasciare subito il corso.”
La notizia non mi sconvolse, anzi, fu una liberazione. Avrei dovuto lasciare tutto già da tempo, ma fino a quel momento non avevo mai saputo cosa volessi veramente dalla vita. Ora, dopo la morte di papà, le cose erano diverse.
“Addio” dissi al Capo Reparto. Me ne andai per sempre: ero finalmente pronto a finire l’università e prendere in mano il Lounge Bar acquistato da mio padre.
Andai subito da Asia per raccontarle tutto. “Ce la faremo.” disse piangendo Asia e mi abbracciò forte. Andammo in un ristorante lungo la strada per pranzare, ma come al solito bevvi troppo.
“Guido io.” Mi disse Asia, cercando di togliermi le chiavi dalle mani.
“Lascia, ce la faccio!” risposi bruscamente.
Persi il controllo dell’auto sulla strada del ritorno, che in una frazione di secondo uscì di strada ribaltandosi più volte, per fermarsi di colpo addosso ad un albero. Le cinture erano solo un impiccio fastidioso. I soccorsi trovarono Asia deceduta e me con fratture varie. Poi il coma, un lungo sonno profondo. “Guardate, sta piangendo!” sento dire alla mamma, mentre una lacrima mi riga il viso.
“Stia calma,” dice il dottor Varzi senza scomporsi “mi faccia controllare.”
Comincia a visitarmi dalla testa ai piedi.
“Mi sta stringendo un dito!” esclama mia madre, mentre mi sforzo come se dovessi spaccare il mondo. “Signora, Salvatore si sta svegliando.” dice il Dottor Varzi.
“Ho aspettato che ti svegliassi, è ora che ritorni al mio posto.” mi dice Asia, sorridendo.
Grazie per avermi tenuto compagnia, mia bellissima Asia.
Ed evapora via, scomparendo nel nulla. Non prima di avermi dato un ultimo bacio al sapore di fragola.